Sin dal suo sorgere, il conflitto in Ucraina ha avuto un rilievo che è andato ben al di là dei due Paesi contendenti. E così, anche il modo in cui verrà risolto avrà conseguenze rilevanti sui processi globali dei prossimi anni. Sugli equilibri di forza, ma anche sui metodi di soluzione delle controversie. Come ha più volte ricordato il presidente Mattarella, pace e giustizia sono due termini che si parlano. Una pace duratura e accettabile non può prescindere dal criterio della giustizia.
Per quanto riguarda la vicenda Ucraina, alcune cose vanno dunque ripetute con chiarezza: Putin ha commesso un gravissimo errore usando i carri armati per annettere una parte di territorio russofono ma appartenente a un altro Stato sovrano. Si può discutere sul modo in cui sono stati rispettati gli accordi di Minsk del 1991 e del 2014. Ma ciò non giustifica in alcun modo l’attacco a un Paese indipendente. E tantomeno l’uso di una violenza gratuita nei confronti di civili inermi o il sequestro di bambini dai territori occupati. Il raggiungimento di una pace giusta dovrà fare i conti con tutte le atrocità commesse.
Rimane tuttavia aperta la domanda su come raggiungere tale obiettivo. Sappiamo che, con la decisione di invadere, Putin ha determinato una frattura profonda nella già difficile relazione tra i due Paesi. Tra l’altro compromettendo la reputazione russa presso il popolo ucraino, compreso il Donbass. Il conflitto che ne è derivato innesca una classica dinamica di “violenza simmetrica”: dato che l’attacco vuole arrivare alla sottomissione, la reazione punta all’annientamento dell’attaccante.
A Roma Zelenski ha dichiarato che non gli serve un mediatore. Ma c’è da sperare che cambi idea. Molti analisti temono che il conflitto sia destinato a un esito di tipo coreano: una guerra lunga ed estenuante, con un numero imprecisato di vittime. Ma se anche le cose andassero diversamente e gli ucraini ricacciassero i russi dal Donbass e dalla Crimea, difficile pensare che ciò porti a una pace stabile nell’area. In realtà, per percorrere la strada che ricompone pace e giustizia, un ruolo importante lo gioca lo spazio della terzietà – che permette di andare al di là dello scontro tra i due contendenti. Il ruolo del terzo, cioè del mediatore, non è quello di trovare un punto di compromesso indistinto che tradisca le esigenze della giustizia. Al contrario, il suo compito è quello di accompagnare le parti a ristabilire una dinamica di riconoscimento reciproco che permetta, un passo per volta, di fermare le ostilità e avvicinarsi alle esigenze della giustizia. Ciò può avvenire quando il terzo è capace di andare oltre le due parti prese singolarmente, pur coinvolgendole entrambe. Vale a dire, quando riesce a essere il garante di vera giustizia nel processo di ricostruzione della dinamica relazionale. Solo attraverso l’apertura di questo spazio transizionale è possibile tornare a una condizione davvero pacificata. Purtroppo, in questo momento storico l’Onu non riesce a svolgere il ruolo di mediatore efficace. È ciò costituisce un problema che merita di essere affrontato nel prossimo futuro.
In questo vuoto, l’offerta di mediazione del Vaticano – pur nei suoi limiti – ha un grande valore. Che nessuna delle parti in causa dovrebbe trascurare. Non perché possa essere in grado di sciogliere i tanti nodi che si sono formati. Ma perché può segnare un piccolo passo in avanti da cui cominciare. Davanti ai tanti fronti di scontro in diverse aree del mondo, non è ammissibile accettare l’idea che la legge dell’aggressione regoli le controversie aperte. Né, d’altra parte, si può accettare la logica della violenza simmetrica, che risponde con la violenza alla violenza. Perché il mondo si ritroverebbe in una pericolosa spirale bellica. È importante allora che chi ha a cuore la pace operi con grande attenzione nei prossimi mesi. Quando di fatto si scriveranno le regole con le quali saranno affrontate anche le prossime crisi. A partire da Taiwan. La vicenda del Donbass insegna che davanti a controversie territoriali, dove le ragioni e i torti culturali e storici si accavallano, la cosa più intelligente che si possa fare è dialogare, dialogare, dialogare. In via preventiva, per evitare di ripercorrere la strada dell’incomprensione e dell’odio, come quella che ha portato alla distruzione del Donbass. E, poi, in via conclusiva, per evitare che, in un mondo interdipendente, sia la logica delle guerra a tornare a essere il criterio con cui si pensa di regolare le relazioni internazionali.