Il senso delle istituzioni viene prima dello scontro con i magistrati
domenica 16 luglio 2023

Tre vicende che da un po’ di tempo trovano largo spazio nelle cronache vengono spesso etichettate come ennesimi episodi di un’ormai annoso deterioramento dei rapporti tra politica e giustizia. Sintomi, in particolare, del riaccendersi di uno scontro, mai del tutto sopito, tra una parte della politica e una parte della magistratura. Vale forse la pena spendere qualche considerazione anche da un altro punto di vista: sul senso, cioè, delle istituzioni che ne emerge, da parte di parecchi tra coloro che ne sono rappresentanti.

Tra tutti, il caso sul quale anche il cittadino comune può farsi un’opinione senza dover conoscere le alchimie di leggi e sentenze, è quello dell’intervento pubblico del Presidente del Senato, Ignazio La Russa, su una denuncia presentata nei confronti di uno dei suoi figli per violenza sessuale. In proposito la stessa Presidente del Consiglio Giorgia Meloni - pur strettamente legata a La Russa da una radicatissima militanza politica comune - ha usato parole eloquenti di dissenso, apprezzabili specialmente nella esplicita solidarietà verso tutte coloro che non si rassegnano alla violenza. In ogni caso, senza nulla togliere al comprensibile desiderio di un padre di veder scagionato il figlio da un’accusa infamante e di esprimere una convinzione d’innocenza, l’essere la Seconda carica dello Stato avrebbe dovuto imporre in partenza a quel padre di tacere e poi, puramente e semplicemente, a riconoscere di avere sbagliato e gravemente, a danno della ragazza ma altresì della collettività da lui rappresentata. Ciò, del tutto a prescindere dagli sviluppi e dagli esiti che l’indagine potrà avere.​

Più complesso il quadro che vede come protagonista la Ministra Daniela Santanchè. Vi si avverte, come in tanti altri casi, qualcosa che non funziona nei meccanismi predisposti dalla legge per la gestione delle notizie di reato da parte degli inquirenti e in particolare di quell’istituto nato in funzione di tutela dell’indagato - “informazione ( non avviso) di garanzia” - e divenuto invece il surrogato di una condanna anticipata, come già denunciava il Presidente Scalfaro alla fine degli anni Novanta. Né, almeno in partenza convince quello che rischia di diventare il rituale delle richieste di dimissioni, come una sorta di conseguenza automatica dell’emissione di quell’informativa o addirittura della mera iscrizione di un nome nel registro delle notizie di reato. Quante carriere politiche stroncate per la diffusione di una pratica mediatica e politica scorrettissima, non compensata da tardivi e insufficienti riconoscimenti a posteriori dell’ingiustizia … Ciò non vuol dire che il legittimo emergere, da un’inchiesta, di fatti sconcertanti a carico di chi detiene un potere, tanto più se ad alto livello, non possa diventare - indipendentemente da una condanna penale - oggetto di pubblica discussione e di valutazioni etico-politiche anche estremamente critiche. E da questo punto di vista appare insostenibile, sempre alla stregua del senso delle istituzioni, con quell’oltre mezz’ora di autodifesa irrituale mediante l’esposizione nell’aula parlamentare, senza contraddittorio, delle “sue” verità.

Infine, il caso del sottosegretario Delmastro. Il caso, com’è noto, è nato dall’intervento parlamentare di un deputato (l’on. Donzelli), con pesantissime accuse a colleghi dell’opposizione basate su documenti riservati, a lui “passati” dal sottosegretario: e, quanto a senso delle istituzioni, non c’è che dire. Ma, secondo i critici, ad essere “irragionevole” sarebbe la decisione di un giudice di non accogliere una richiesta di archiviazione avanzata dal pubblico ministero a conclusione della sua indagine per rivelazione di segreto.

Irragionevole? No, semplicemente applicazione di una regola voluta nel suo nucleo più essenziale, sin dagli anni successivi alla Liberazione, per garantire una doppia verifica prima di mandare in archivio una notitia criminis. Che, poi, la richiesta del pubblico ministero in questo senso venga solitamente accolta nulla toglie alla legittimità e alla “ragionevolezza” della soluzione alternativa, che non vuol dire certezza della condanna, ma mero riconoscimento dell’opportunità di vederci più chiaro: tanto più in un caso come questo, dove, a quanto pare, il dissenso tra p.m. e g.i,p. non verterebbe sul fatto oggettivo della rivelazione di ciò che non doveva essere rivelato, ma soltanto sull’individuabilità o meno di un “dolo” da parte dell’autore. Semmai, è opportuno che in casi del genere a formulare l’imputazione non sia la stessa persona che aveva firmato la richiesta di archiviazione.

Ma, prima di togliere quella doppia verifica e fare del giudice un semplice passacarte di quella che non sarebbe più una richiesta ma un diktat, sarebbe bene pensarci più di due volte.

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