È doveroso cercare di rintracciare il fil rouge che lega le recenti manifestazioni – barricate incendiate, scontri con le forze dell’ordine e vittime rimaste sull’asfalto – avvenute in Iran sul finire del 2017, in Tunisia all’inizio del 2018, in Bahrein, in Palestina e altrove. Si tratta di proteste che esprimono un malcontento popolare diffuso, a fatica sedato con la forza dai governi dei Paesi implicati, tutti a maggioranza musulmana e disposti su una mezzaluna ideale che va dal Marocco fino al Pakistan e all’Afghanistan. Tali manifestazioni, una volta analizzate coscienziosamente – al di là al di là cioè delle grandi questioni che rimangono sullo sfondo, cioè la rivalità tra sunniti e sciiti, le divergenze tra Paesi del Golfo persico, le rivendicazioni identitarie – non svelano né una preponderante valenza politica né una radicata dimensione religiosa.
Anche se spesso e volentieri partiti e fazioni confessionali cercano di cavalcare la tigre della protesta, le radici degli scontri paiono molto più 'materiali': sarebbero una conseguenza dell’insofferenza della gente nei confronti dei loro governanti, di qualsiasi segno e sensibilità. Sarebbero una naturale espressione della 'pancia' delle popolazioni che faticano a tirare avanti. Chiunque frequenta regolarmente tali Paesi a maggioranza musulmana, chiunque osserva da vicino le popolazioni mediorientali (non solo dai club geostrategici di qualche capitale occidentale), si rende immediatamente conto come le ribellioni di questi ultimi mesi abbiano nel mirino soprattutto le amministrazioni statali. L’insofferenza si acuisce al punto da far dimenticare alle popolazioni i rischi che corrono scendendo in piazza. Nemmeno Israele può essere escluso totalmente da quest’analisi, nemmeno la Turchia che vorrebbe far banda a parte, nemmeno gli ipertecnologizzati Emirati Arabi Uniti.
Come si manifesta tale inefficienza? In questi Paesi non è possibile ad esempio ottenere una linea telefonica senza 'oliare' due o tre livelli di funzionari; la distribuzione dell’energia elettrica, pur in regioni solitamente ricche di fonti energetiche, è appaltata a società che esigono bollette supplementari oltre a quelle dello Stato; le scuole hanno livelli così bassi di qualità da costringere coloro che ne hanno i mezzi a iscrivere i propri figli in scuole private, dove esistono, o altrimenti a spedirli all’estero; le cure mediche sono di bassa qualità e hanno bisogno del supporto del settore privato che lucra sulle inefficienze statali; ancora, non esistono sistemi di controllo di gestione adeguati alle dimensioni sovradimensionate delle amministrazioni; e gli stessi organi preposti al controllo sono i primi a essere corrotti e a usare della loro posizione per integrare i propri salari troppo spesso insufficienti; da parte loro, le forze di polizia stradale non sono impegnate tanto nel controllo del traffico quanto nell’attività di raccolta di banconote nascoste nelle patenti di guida per imbonire gli agenti ed evitare contravvenzioni più gravi; non esistono altresì sistemi giudiziari realmente indipendenti dai governi e con una seppur minima efficacia nel condannare gli abusi dell’amministrazione...
Cosa mai ci si può aspettare che facciano i cittadini di fronte a queste distorsioni del servizio pubblico? Se tutto ciò è vero, come lo è seppur in caratteristiche e dimensioni diverse da Stato a Stato, è evidente come il malcontento popolare non possa che crescere per poi esplodere in occasione di episodi anche secondari, ma che fungono da detonatore. Sul banco degli imputati ci sono allora malgoverno, corruzione e incompetenza di tanti, troppi funzionari statali, spesso cooptati dalle autorità pubbliche al potere seguendo logiche claniche o tribali, al limite lobbistiche. Vengono cioè denunciati sistemi avvitati su sé stessi, che negli ultimi decenni hanno foraggiato la corruzione di funzionari pubblici di ogni livello, dai più alti ai più bassi. Viene contestato il funzionamento deficitario di quel ramificato Deep State (Stato profondo, per gli anglofoni) che riduce le amministrazioni a concentrazioni di interessi privati senza alcun legame con l’idea di servizio pubblico. E non è solo e non è tanto una questione di mancanza di democrazia, perché anche in Stati dittatoriali o imperiali le amministrazioni locali hanno saputo talvolta funzionare bene: basti pensare alle burocrazie ottomane del XVII e XVIII secolo, o più recentemente a quelle di Gheddafi o Saddam Hussein, almeno agli inizi della loro occupazione del potere.
L’idea di Deep State è recente, e viene dagli Stati Uniti (Marc Ambinder, Michael Hafford e Jason R. Lindsey). Con tale espressione si intende spiegare come gli Stati nei fatti abbiano talvolta un 'doppio governo' (Michael J. Glennon): accanto al legittimo potere rappresentativo, il governo parallelo sarebbe il frutto degli sforzi coordinati e corporativi di impiegati pubblici e di altri attori della vita pubblica uniti dallo scopo di influenzare le decisioni politiche di uno Stato, senza tener conto di coloro che, democraticamente, detengono il potere. In particolare è stata usata questa chiave interpretativa per il funzionamento dell’amministrazione Usa nei confronti del presidente Trump (Oliver Willis). In modo analogo, e solo per analogia, si può estendere tale chiave interpretativa a Paesi come quelli dell’arco che va dal Marocco all’Afghanistan, Paesi retti da regimi raramente democratici ma che, comunque, hanno responsabili politici ben assestati sui loro scranni. Il Deep State in queste nazioni funzionerebbe con modalità e finalità proprie, forse meno 'elevate' politicamente parlando rispetto agli Stati Uniti, ma comunque reali. Agirebbe addirittura più profondamente di quanto non accada in Occidente, dove comunque esistono organi di controllo e di giustizia più affidabili.
Probabilmente non solo le manifestazioni più recenti hanno questo sostrato. La stessa 'primavera araba' – meglio, molto meglio chiamarla 'transizione araba' – aveva probabilmente una tale natura. Una transizione che ora sta investendo anche Paesi non arabi, come l’Iran o il Pakistan, con forme diverse ma con un simile background. Anche a Mashaad o Teheran, Lahore o Kabul l’insofferenza della popolazione verso i funzionari statali è crescente. Per questo appare ormai chiaro come le cancellerie occidentali abbiano preso il classico granchio quando, troppo rapidamente, avevano sostenuto la 'primavera araba' pensando erroneamente che le proteste avrebbero portato miracolosamente a cambiamenti radicali di governo, con un’immediata propensione per forme democratiche inedite per quei Paesi. Nulla (o poco) di tutto ciò è avvenuto. Il malgoverno è stato ed è il primo obiettivo di queste proteste: è un male profondo e incancrenito di queste società mediorientali, come non pochi osservatori locali da tempo vanno denunciando, per tutti Courban, Corm e il compianto Abu Zayd.