giovedì 3 agosto 2017
Occupare il futuro. L'attività retributiva non esaurisce il nostro compito
Il lavoro non è la professione
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Nell’urgente e necessaria discussione intorno al tema del lavoro è utile proporre una fondamentale distinzione terminologica: il 'lavoro' non coincide con la 'professione'; o anche: la 'professione' non esaurisce tutto il senso raccolto e custodito nel termine 'lavoro'. Il più delle volte, di fronte a proposte del genere, viene quasi naturale esprimere i propri dubbi e perplessità: perché perdere tempo con simili questioni teoriche quando il problema del lavoro, più precisamente dell’assenza di lavoro, morde con tutta la sua drammatica concretezza la quotidianità di milioni di persone? Così controbattono i noti realisti: abbiamo bisogno di politica ed economia, forse anche di un po’ di sociologia, ma della filosofia possiamo senz’altro farne a meno. Eppure resto convinto che la distinzione proposta sia pertinente e soprattutto feconda: essa, infatti, è in grado di aiutarci, se non a risolvere, almeno a meglio comprendere le molte questioni che oggi entrano in gioco quando si parla di lavoro.

Per 'professione' è bene intendere quel tipo di lavoro retribuito che occupa un determinato tempo, che si svolge in un certo luogo e che comporta precise gerarchie sociali. Il 'datore di lavoro' è colui che retribuisce con una paga l’attività di un soggetto che offre parte delle proprie forze, delle proprie capacità e del proprio tempo per realizzare un determinato bene: il 'datore di lavoro' è colui che paga, che 'dà la paga', mentre il lavoratore è colui che ha un 'posto di lavoro'. È in questo senso che comunemente si intende il termine 'lavoro': c’è lavoro quando c’è retribuzione, quando c’è qualcuno che paga qualcun’altro, un 'dipendente', affinché questi svolga una determinata attività. Senza retribuzione e dipendenza non c’è dunque alcun lavoro.

Questa insistenza sulla retribuzione è fin troppo facile da comprendere; tuttavia, proprio perché fin troppo ovvia, essa rischia anche di consumare e portare ad esaurimento un senso che dal punto di vista antropologico è invece molto più denso e sottile. Le Sacre Scritture ci aiutano a non smarrire una simile ricchezza. Si racconta che l’uomo è stato posto da Dio al centro del Giardino dell’Eden allo scopo di 'coltivarlo e custodirlo' ( Gn, 2, 15). Il Giardino non è la sede degli dei, ma è un luogo dell’uomo, è un luogo per l’uomo, è ciò che Dio ha pensato e realizzato per il bene dell’uomo. Il Giardino non è neppure il 'Paese delle meraviglie' o il 'Paese dei balocchi'. Esso, infatti, esige e attende il 'lavoro' dell’uomo; scrive il grande esegeta von Rad: «Anche nel suo stato primitivo l’uomo era destinato al lavoro»; di conseguenza in nessun modo, in questa scena primaria, il lavoro può essere considerato come una «pena e una maledizione. L’uomo era tenuto al lavoro anche nel paradiso».

All’interno dell’ordine creaturale proposto nelle Sacre Scritture il lavoro dell’uomo, più che essere previsto, è in verità esatto. Come bisogna intendere questa necessità? Si tratta, per l’appunto, di fare riferimento ad un senso del 'lavoro' ben più ampio di quello che si esprime nell’idea di 'professione'. In estrema sintesi, la creazione è perfetta ma non compiuta, essa parla di una perfezione che è tale proprio perché attende di essere compiuta. Scrive von Balthasar: «Se Dio sa tutto e vede tutto, che cosa gli si potrebbe ancora dare o mostrare? La creatura sarebbe davanti a lui come derubata dei suoi privilegi personali e diventerebbe una specie di cosa, del tutto spoglia di diritti. Ma le cose non stanno così». In effetti, le cose non stanno così, o meglio: le Sacre Scritture non autorizzano ad interpretare la scena creaturale in questo modo. Una creazione compiuta non sarebbe perfetta, o almeno non sarebbe all’altezza dell’uomo: quest’ultimo, infatti, parteciperebbe ad una festa, o ad un matrimonio, sempre e solo come un invitato o uno spettatore, mai come uno sposo o un attore, e quindi in verità non vi parteciperebbe affatto. Il processo di demitologizzazione messo in atto nei primi capitoli del Genesi deve essere pertanto compreso come l’altra faccia di quella drammatizzazione che non a caso trova nella sollecitazione del libero lavoro umano (coltivare e custodire, cioè nominare) la sua espressione più alta. In conclusione, è attraverso il 'lavoro', di cui la 'professione' è solo un aspetto e un momento, che l’uomo contribuisce al compimento della creazione.

Torniamo all’oggi. La nostra società tardo-capitalista, consumistica e informatizzata, esalta la 'professione' a discapito del 'lavoro'; essa fa del 'successo professionale' uno dei cardini portanti della propria visione del mondo. Tale enfasi, che non raramente evolve verso una vera e propria idolatria, produce alcuni effetti che vale la pena considerare. Innanzitutto si tende a identificare il successo nella 'professione' con il compimento nella vita; chi non svolge una 'professione' di un qualche prestigio è come se non fosse degno di particolare stima; chi poi non svolge alcuna 'professione' finisce addirittura per essere considerato – e soprattutto, ecco la tragedia, finisce egli stesso per considerarsi – un fallito.

In secondo luogo la totale attenzione per la 'professione' tende a produrre una separazione sempre più netta tra il tempo dedicato al lavoro e l’altro tempo, un tempo che non a caso viene definito 'libero' e che di solito si concepisce come relativo al riposo e allo svago. Tale separazione spinge a considerare questo secondo tempo come 'libero' proprio perché in esso non ci sarebbe alcun 'lavoro' da svolgere e nessuna 'responsabilità' da assumere: leggere e comprendere un romanzo, ad esempio, non comporterebbe alcun lavoro, così come ammirare e comprendere un’opera d’arte, o accudire volontariamente un ammalato o un anziano, eccetera. È come se nel cosiddetto tempo 'libero' l’uomo non dovesse far altro che 'far passare il tempo' e nella migliore delle ipotesi 'divertirsi' (ecco perché il 'ballo' si trasforma spesso in 'sballo'); il 'tempo libero' sarebbe un luogo moralmente neutro all’interno del quale non si è chiamati ad alcuna responsabilità, neppure a quella di 'coltivare e custodire' la propria umanità.

Infine, l’esaltazione della 'professione' si accompagna sempre con l’assunzione e il successivo svuotamento interno della drammatica dimensione affettiva che sempre caratterizza il 'lavoro'; la 'professione' parassita il 'lavoro' caricaturandone la logica e il lessico e riconducendolo così a niente. Si parla dell’azienda come di una 'famiglia', si esige che nei confronti della propria 'professione' si dimostri una chiara 'affezione', i rapporti all’interno di un 'posto di lavoro' vengono caricati di valori e di significati che arrivano ad investire gli aspetti più intimi della vita del soggetto, i tempi di lavoro si dilatano in modo vergognoso. In effetti, diciamo la verità: tale parassitaggio ha qualcosa a che fare con l’indecenza. Come ci si permette, ad esempio, di utilizzare il lessico famigliare, così complesso, drammatico, emotivamente travagliato, quasi impossibile da pronunciare, per descrivere e definire delle mere attività professionali? Insomma, quando la 'professione' diventa tutto, la vita e il 'lavoro' ch’essa comporta si riducono a niente.

A me sembra che convenga mantenere distinti il 'lavoro' e la 'professione', soprattutto per continuare a dire a chi non ha ancora o non ha più una 'professione' che non per questo egli è un fallito o un finito: la creazione intera attende sempre il suo 'lavoro', unico e insostituibile, senza il quale essa non arriverà mai a compimento.

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