Una «guerra mondiale a pezzi» combattuta in nome di Dio? O è più esatto dire che è una guerra in nome di "io"? Non è un gioco di parole. Vedendo lo scenario in cui siamo finiti, con notizie di guerra e stragi ovunque, anche sulle strade della invecchiata Europa, si notano una serie di contrapposizioni tra concezioni diverse dell’"io" più che opposizioni di idee intorno a Dio. Tanto è vero che non mancano atti di preghiera comune e di comune condanna della violenza di esponenti di diverse religioni. E non manca, soprattutto, la voce del Papa che incita tutti a non fermarsi alla interpretazione scontata degli avvenimenti. Infatti, per chiunque creda – cristiano o islamico o ebreo – Dio è uno, grande, onnipotente, misericordioso. Le differenze semmai sono a riguardo dell’io. E gli schieramenti, diciamo così, a tal proposito si complicano, le alleanze reali al di là di droni in volo o degli scarponi a terra su campi di battaglia sono più articolate. Le guerre, visibili o sotto traccia, non sono solo quelle che esplodono ordigni. C’è un io sottomesso tanto nel radicalismo islamico quanto nell’occidente tecnocapitalista, c’è un "io" libero nelle esperienze cristiane più vive, come un "io" che scopre la propria dignità in islamici che aderiscono a modelli di vita e di pensiero fondati sui valori universali (e certamente occidentali) della libertà responsabile. Tutti questi fattori che riguardano l’io sono correlati, c’entrano eccome con la guerra. C’è un "io" che genera vita e uno che invece, anche se dice in tutti i modi di amare la vita, isterilisce e non genera né figli né allarga vero benessere. C’è un "io" che vuol dettare legge per conto di Dio nei combattenti di uno "Stato" che rapisce le ragazze in Africa e trasforma i bambini in boia in Siraq, come pure c’è in quello che opprime le une e gli altri nelle case in Italia; e un "io" indomabile e capace di martirio nei cristiani copti uccisi in terra e sul mare e un "io" capace di servire l’altro anche diverso o disturbante in tante esperienze di carità. La cultura europea e occidentale – grazie all’influsso greco ed ebraico-cristiano – ha sempre indagato l’io. Da Socrate a Shakespeare, da Cervantes a Rimbaud, da Leopardi a Whitman a Freud, grandi contributi della cultura sono indagini sulla natura dell’io. Per noi è una faccenda interessante almeno quanto Dio. Del resto, questo "io" è stato chiamato a essere figlio, alleato, amico da Dio. Non un insignificante soggetto, sottomesso oppure connesso, senza più identità corporea e spirituale come automa in rete replicabile.
Certo la religione conta, ma quella che è in corso non è certo una guerra sola in nome di due idee di Dio, ammesso che da queste parti in tanti c’è ne sia ancora una. Ci sono molte guerre che si intrecciano nei conflitti a cui assistiamo con orrore e impotenza. Ma l’impotenza nasce (e viene favorita) dalla confusione a riguardo di cosa sia in gioco veramente. Dicono che c’è in gioco la religione. No, in gioco c’è l’io dell’uomo contemporaneo. Non c’è uno schieramento del bene e uno del male. Ci sono molti schieramenti che si tengono, a volte dicono di opporsi e invece no. Occorre chiedersi - come Leopardi in una poesia vertiginosa - 'E io che sono?'. Senza un serio tentativo di risposta a questa domanda – calata nelle vicende della vita– ogni retorica intorno alla guerra suona fasulla, semplificatoria e un po’ furbastra. Decidere che 'io' essere. Solo a partire da questo infatti, può accadere quell’atteggiamento che non solo è opposto alla guerra, ma che è benzina per lo sviluppo, e che viene indicato nel titolo del Meeting di Rimini di quest’anno: «Tu sei un bene per me». Solo un 'io' che sa che dignità lo intesse fino all’ultima fibra e di che natura è il suo grido può affermare, senza sembrare buonista o comodamente ingenuo (salvo incidenti) che l’altro è un bene. Non basta un sentimento a fondare un atteggiamento del genere. Occorre una coscienza critica, una cultura. La sfida odierna in questo senso è terribile. Incerta. Si vedono ovunque segni di conflitto, si quadrano ring e, nel frattempo, si odono quasi sempre esortazioni e luoghi comuni senza sugo. Occorre una cultura più forte, viva, una testimonianza incisiva. C’è un 'io' che non si lascia tentare dalle sirene di una delle varie forme di sottomissione e schiavitù che ci seducono sempre, magari in cambio di una pentola di fagioli (reale o virtuale...)?