Il futuro in tre ingredienti
sabato 23 marzo 2019

La visita del premier cinese Xi Jinping a Roma non ha solo reso più difficile il traffico della capitale ma anche monopolizzato il dibattito economico di questi giorni attorno ai vantaggi e svantaggi di un accordo con la Cina. Se a oggi esiste solo un memorandum d’intenti i cui contenuti non sono ancora noti al Parlamento, i nodi della questione ruotano, come è ovvio, attorno alle condizioni di reciprocità tra i due partner (difficili da negoziare con un gigante come quello cinese e, a oggi, sbilanciate a vantaggio della potenza asiatica in molti settori) nonché agli accordi relativi alle infrastrutture fisiche e virtuali strategiche per il Paese (come i porti e il 5G, la tecnologia di ultima generazione per i cellulari). Le opportunità potenziali sono evidentemente notevoli ma l’attenzione e la cautela devono essere massime.

Il futuro della nostra economia dipende, però, solo in piccola parte dalla notizia del giorno e non pare a oggi particolarmente roseo. Fa impressione vedere scivolare nelle classifiche delle previsioni di crescita economica per il 2019 l’Italia all’ultimo posto tra i 28 dell’Unione Europea e tra gli unici tre col segno meno (insieme ad Argentina e Turchia) nel più vasto club dei paesi dell’Ocse. Questi dati dimostrano che l’alibi del nemico esterno non regge. Dare la colpa all’Europa o all’euro non spiega perché Paesi come Spagna, Portogallo e persino Grecia in questo momento fanno o faranno nelle previsioni meglio di noi. Essendo parte dell’Eurozona siamo probabilmente finiti in una classe difficile con un’insegnante di cui non approviamo tutti i comportamenti, ma questo non giustifica il fatto che siamo gli ultimi della classe perché le stesse regole valgono per i nostri compagni di viaggio.

La radice fondamentale del nostro problema è probabilmente in una componente strutturale e in una più congiunturale. Quella strutturale, che ci vede sempre in ritardo rispetto agli altri Paesi europei, sta nella nostra incapacità di agire su problemi come tempi e costi della giustizia civile e rapporto perverso tra pubblica amministrazione, giustizia e imprese. L’economia ha bisogno di tempi rapidi, la giustizia civile italiana è invece clamorosamente più lenta di quella delle altre nazioni europee. E la nostra pubblica amministrazione rischia la paralisi perché la macchina è diventata così farraginosa e complessa che i funzionari hanno paura di firmare e far avanzare procedure per timore di conseguenze legali. Siamo al paradosso di decine di migliaia di investimenti finanziati, ma non cantierati o cantierabili. Il governo è pienamente consapevole di questo problema visto che sta lavorando al decreto sblocca-cantieri e ha annunciato l’istituzione di una cabina di regia per accelerare le procedure.

Il secondo punto di carattere congiunturale è legato al fatto che globalizzazione e nuova rivoluzione tecnologica offrono grandi opportunità, ma solo per chi è in grado di salire sul treno dell’innovazione, della formazione e delle competenze. Il nucleo virtuoso di imprese che operano sui mercati esteri è naturalmente della partita, se non altro perché la concorrenza internazionale fa da stimolo e pungolo. Il resto del nostro sistema però fa molto fatica. Siamo ancora una volta ultimi nell’Unione Europea in materia di quota di popolazione con titoli di studio elevati e registriamo un grave ritardo in materia d’investimento che si protrae dai tempi della crisi finanziaria globale. Su questo punto specifico il governo invece di accelerare e porre l’enfasi su formazione, innovazione e investimenti ha però di fatto dato segnali opposti e il suo avvento, non a caso, coincide con l’avvio di un trend di declino della fiducia delle imprese.

L’enfasi sulla formazione e sull’innovazione sembra essere significativamente diminuita mentre la lunga controversia sulla Tav (al di là dei suoi esiti finali) ha avuto l’effetto di creare un’immagine di leadership che non fa abbastanza per lo sviluppo delle infrastrutture.

Siamo ancora in tempo per recuperare. Abbiamo una tradizione robusta e una leadership in molti segmenti del settore delle macchine utensili. Ci sono imprese straniere che decidono di localizzarsi in Italia come base per le loro operazioni nel Sud Europa perché sanno di trovare manodopera di qualità e componentisti all’altezza. E le nostre migliori aziende vanno all’estero a investire rilevando imprese in crisi, anche in Paesi come gli Stati Uniti, per farle ripartire. Vantiamo eccellenze nella formazione professionale post-secondaria (gli Istituti Tecnico Scientifici) come ad esempio Umbria Academy a Foligno, dove 250 giovani si formano per due anni per poi andare a lavorare come tecnici specializzati nel settore della meccatronica. E la qualità della loro formazione dipende da laboratori che simulano attività di frontiera di queste imprese, finanziati con importanti investimenti per acquistare macchinari all’avanguardia.

Il nostro Paese per restare al passo e non perdere la sfida ha bisogno di continuare a investire, innovare e formarsi per non perdere il treno del futuro. E ovviamente di accordi commerciali che migliorino l’accesso a mercati fondamentali come quello cinese negoziati su condizioni di reciprocità. È mettendo le risorse e l’accento su questo grande sforzo collegato all’impegno sul fronte della solidarietà e della coesione sociale che possiamo uscire dalla crisi. Solo abbinando innovazione, formazione permanente e solidarietà possiamo farcela.

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