Gentile direttore,
mentre camminiamo verso il Natale, mi ricollego al pensiero espresso dal signor Gian Maria su "Avvenire" del 22 ottobre in una lettera pubblicata sotto al titolo:«La forza e il coraggio di chiedere scusa» a proposito della strage di Debre Libanos. Perché mi sembra che si proponga un metodo che dovrebbero adottare tante persone che hanno responsabilità, seguendo l’esempio dato nel 2000 da san Giovanni Paolo II e continuato oggi da papa Francesco. Avendo in precedenza letto con attenzione e interesse l’editoriale di Lucio Brunelli messo in pagina il 16 ottobre, mi ero posto la domanda: a chi compete insegnare una modalità per chiedere perdono, la mia risposta era stata: alla Chiesa, anche attraverso il Papa, perché la Chiesa perdona e sa chiedere perdono. Così, come cristiano di 70 anni, mi permetto di suggerire una solenne richiesta di perdono che la Chiesa dovrebbe fare nei nostri confronti. La nostra generazione di "vecchietti" ha ricevuto, infatti, una catechesi basata più sulla paura, che sull’amore del Padre nei nostri confronti, per cui dovevamo meritarci il suo amore e la sua salvezza. Ora, da pochi decenni, abbiamo scoperto il vero volto di Dio - quello di Gesù Cristo morto, risorto e vivo da duemila anni, ma credo sia rimasta in noi, in tanta gente comune, un’incertezza di fondo: perché prima non era così? Non è forse opportuno riconoscere l’errore che si trascina ancora in tanti fedeli, per cui non riescono ad annunciare Il Vangelo della gioia come sempre ci chiede papa Francesco?
Tiziano Manzoli, Mantova
Ho 61 anni, caro amico, e dunque ho solo pochi anni meno di lei. Sono parte della sua stessa generazione. E posso assicurarle che la catechesi che ho ricevuto (e che continuo a ricevere) non è stata basata «più sulla paura che sull’amore». Anzi, la mia religiosità è stata nutrita in modo esattamente opposto da buoni maestri e buone maestre di fede cristiana e cattolica. Certo, in questo senso, essere nato "concittadino" di san Francesco e di santa Chiara ed essere cresciuto ad Assisi è stato per me un dono speciale. E ho detto molte volte, in dialogo coi lettori, di voler bene e di essere grato a tutti i Papi della mia vita, ma di considerare una benedizione altrettanto speciale che il Papa dei miei verd’anni sia stato san Paolo VI… Sia chiaro che, con questo, non voglio sostenere né che lei dica una cosa non vera o, al contrario, affermare che a me sia toccato di vivere una felice eccezione a una presunta regola. So bene, infatti, che c’è una grande varietà di esperienze sotto al cielo di Dio e anche dentro la nostra Chiesa… Non per nulla lo stesso papa Francesco - che, pure, è la dimostrazione vivente di tutt’altro insegnamento - ha ricordato in modo esplicito che i Pastori possono correre il rischio di proporsi come «doganieri di Dio» piuttosto che come «servitori del gregge».
Accolgo dunque con rispetto la sua riflessione e la sua attesa, che hanno preso spunto e sono state riaccese da quelle suscitate da commenti, documenti e lettere sulla strage di Debre Libanos, ovvero sul massacro - senza ancora piena e solenne ammenda - di religiosi e pellegrini cristiani d’Etiopia da parte - purtroppo - di soldati italiani (a fine novembre, il nostro giornale ha pubblicato altri amarissimi particolari su quell’eccidio che importanti storici hanno ricostruito e che Lucio Brunelli e Antonello Carvigiani attraverso Tv2000 hanno fatto conoscere con una tv fatta di rispetto e di verità). E ammetto che mi dà davvero da pensare la conclusione che lei propone: «Non è forse opportuno riconoscere l’errore che si trascina ancora in tanti fedeli, per cui non riescono ad annunciare il Vangelo della gioia come sempre ci chiede papa Francesco?».
Ebbene, non ho titoli né motivo per giudicare la fede degli altri, e non so se siano davvero tanti quelli che si trovano nella condizione che lei descrive con dolore, ma so che ce ne sono. Non ho neppure intenzione o, peggio ancora, pretesa di dire, io, a chi guida la Chiesa, che ci è «madre e maestra» anche nell’umanissima eppure divina pratica del perdono, che cosa sarebbe giusto fare. Ma credo che la sua domanda meriti di essere presa sul serio. «Chiediamo al Signore che ci faccia comprendere la legge dell’amore. Che buona cosa è avere questa legge!», è l’incipit del punto 101 della Evangelii gaudium (la gioia del Vangelo, appunto), prima Esortazione apostolica di papa Francesco. Ho chiaro anch’io, come lei, che in essa il Papa ci ha indicato con chiarezza un metodo, che è anche quello di chi comunque cammina con la testa rivolta in avanti e non all’indietro, "uscendo" da false sicurezze e vecchi (e nuovi) errori per cercare di essere fedeli alla via che è Cristo. E allora che questo tempo dell’anno che ci vede incamminati verso il Natale aiuti tutti noi ad ascoltare le domande vere e trovare le risposta giuste.