È una storia di silenzi e tradimenti, quella che ha inquinato per anni un angolo di Veneto. L’ultima emergenza ambientale conclamata porta stavolta il nome di un composto chimico, Pfas, che da tempo agita il sonno della popolazione locale, oltre 300mila persone in una zona che comprende 21 Comuni nelle province di Vicenza, Verona e Padova. I veleni hanno colpito prima in profondità, insinuandosi nelle falde acquifere, poi sono saliti in superficie e hanno minacciato la salute di tanti cittadini. Una volta minato il territorio, l’incubo si è presentato sotto forma di esami clinici nei valori del sangue, in molti casi alterati, anche su giovanissimi.
La prima denuncia è datata 2013 e porta la firma del Cnr eppure fino a quando, l’altroeri, non è esploso lo scontro politico tra la Regione e il ministero della Salute, era come se il caso a livello nazionale non esistesse. Ci è voluta la mobilitazione di un popolo fatto di mamme, famiglie e associazioni non più disposte a tollerare abusi sulla propria terra, affinché la questione uscisse dai confini locali. «Basta tradimenti», gridano da un anno e mezzo a questa parte, anche sulle pagine di "Avvenire", i comitati nati spontaneamente per invocare, finalmente, acqua pulita. Non è solo paura, la loro, paura per un futuro contaminato, in quella che è già diventata l’ennesima "zona rossa" d’Italia, una piccola Ilva nascosta nel nostro Nord Est.
È insieme esasperazione e voglia di reagire, nella speranza che non sia mai troppo tardi per farlo. Dividersi le responsabilità per quanto accaduto, in questa fase, sarebbe un segnale di realismo, invece stiamo assistendo ancora una volta all’ennesimo scaricabarile tra attori diversi, istituzionali e no.
Sul banco degli imputati c’è innanzitutto un’azienda, la Miteni, cui si deve il rilascio delle sostanze inquinanti, che si difende sostenendo che la campagna di carotaggi effettuata recentemente non ha fatto emergere la presenza di sostanze pericolose. Nello stesso tempo, "scarica" sulle aziende utilizzatrici, molte delle quali attive nel comparto conciario, la vera fonte dell’inquinamento. Il primo punto è proprio questo: è ancora possibile accettare oggi quel che accadeva negli anni Settanta e Ottanta, quando la grande industria e insieme una fitta rete di piccoli produttori locali garantivano lavoro e ricchezza a tante famiglie e tutti chiudevano un occhio sul rispetto delle regole? La risposta è no e riguarda, così come in Veneto, molte piccole comunità locali in tutto il Bel Paese. A Taranto come a Prato, nella valle del Sacco come a Porto Torres. Più in generale, vale il principio per cui al sacrosanto sviluppo economico deve corrispondere il rispetto dell’ambiente. Senza se e senza ma.
In secondo luogo, ovviamente, occorre far scendere il sipario al più presto sul triste spettacolo recitato dai due livelli di governo; regionale e centrale. Non conta stabilire chi per primo ha compreso l’allarme, istituendo commissioni o affidando studi scientifici in materia: sarebbe stato preferibile (ma siamo ancora in tempo almeno su questo) mantenere un profilo più basso, riconoscendo ancora una volta che, finché ha potuto, la politica ha preferito non vedere o rinviare la soluzione del problema a data da destinarsi. In realtà, l’impegno a bonificare le terre malate del nostro Paese dovrebbe essere tra i primi punti dell’agenda di governo, visto che milioni di cittadini gravitano in aree industriali a rischio, dovendo fare i conti, insieme alla Pfas, con molti altri inquinanti che possono causare malattie e problemi seri alla salute.
Ciò che conta adesso è il principio: stop all’ambiente inquinato, ascolto delle richieste di genitori (e tante mamme no-Pfas) in prima linea, condivisione degli obiettivi e dei limiti da fissare per garantire subito acqua pulita e sicura al territorio. Ora che il tempo del silenzio, per tutti, è finito, non siamo di fronte a una missione impossibile.