«Proverò a formare il governo con le forze del cambiamento», dice il giovane leader socialista Pedro Sánchez fresco dell’incarico ricevuto da re Felipe VI, confermando – non senza un’emozione a stento trattenuta – che il Psoe,
está dispuesto, ma che per creare posti di lavoro, affrontare le diseguaglianze sociali, ripristinare fiducia nelle istituzioni del Paese e modificare la Costituzione per rispondere alle istanze della Catalogna avrà bisogno di almeno un mese. Tanto gli occorre, dice, per esplorare gli spiriti sotterranei della destra come della sinistra. Una investidura pesante come un macigno, quella di Sánchez: dopo quarantacinque giorni di stallo e il passo indietro di Mariano Rajoy, il leader del Partido Popular uscito dalle elezioni del 20 dicembre con ancora in mano la maggioranza relativa, ma duramente punito dalle urne, Sánchez può far conto su un’alleanza con Podemos, il movimento guidato dal giovanissimo Pablo Iglesias. Ma questo tandem (90 deputati del Psoe e 69 di Podemos, che peraltro chiede ministeri pesanti e la vicepresidenza) non ha i numeri per governare; per una maggioranza di almeno 176 parlamentari occorre come minimo l’appoggio di Izquierda Unida, e nemmeno quello è sufficiente. E qui cominciano i guai veri per Sánchez: per assicurarsi una base parlamentare minimamente solida (almeno sul piano dei numeri) dovrà rivolgersi agli indipendentisti baschi e catalani. Come dire, polvere da sparo sparpagliata sulla brace della litigiosità spagnola. Ci sarebbe, a ben vedere, Ciudadanos (europeista e contrario all’indipendenza della Catalogna), con i suoi 40 deputati, ma il leader, Albert Rivera, conservatore e avversario dichiarato di Iglesias, difficilmente accetterebbe una coalizione allargata con Psoe e radicali di sinistra. Il ritratto, insomma, di «un Parlamento all’italiana», come motteggia la stampa iberica, che dal 1982 non assisteva alla nascita di un governo di coalizione, «ma purtroppo senza gli italiani».E non è tutto. I problemi più spinosi di Sánchez stanno dentro il partito, non fuori. I "baroni" del Psoe non lo volevano due anni fa e men che meno lo vorrebbero alla guida adesso: dall’andalusa Susanna Diaz ai presidenti della Comunidad valenciana, di Aragón, di Castilla-La Mancha fioccano le pubbliche dichiarazioni di sfiducia nel giovane leader. In più i colonnelli del Psoe gli hanno posto due veti invalicabili: nessuna trattativa con gli indipendentisti catalani, né con il Partido Popular. Ai primi di maggio ci sarà il congresso del partito e sono in parecchi a scommettere che Sánchez entrerà come segretario e ne uscirà come semplice iscritto. Posizione questa che in parte condivide con Mariano Rajoy, precipitato nell’agujero negro, il buco nero della sconfitta, che lo vede in caduta libera all’interno dei popolari e messo all’indice da Ciudadanos e Podemos nell’ipotesi di una futura quanto improbabile
Grosse Koalition, tanto che si dubita che il re possa riaffidargli un nuovo mandato nel caso fallisse la missione di Sánchez.Gli effetti di questo lungo stallo già s’intravedono. In un mese e mezzo la fiducia dei consumatori spagnoli è scesa di 8,3 punti, da 107,4 a 99,1 su una scala da 0 a 200. E dire che l’economia in realtà corre ancora, nonostante tutto: l’occupazione è cresciuta del 2,8% e il Pil aumenta del 3,5% rispetto al 2014. Una conferma, dicono in molti, che la dura ricetta di austerity imposta dai popolari di Rajoy ha funzionato, ma l’elettore è spesso sordo di fronte alle nude cifre e molto più influenzabile quando a dettare l’agenda della campagna elettorale sono due movimenti asimettrici e fatti di giovani come Ciudadanos e Podemos. Due partiti che hanno seppellito il bipartitismo (quasi) perfetto spagnolo trasformando il teatro politico in una scena frammentata e piena di incertezze.«Torneremo alle urne, non c’è altra soluzione», annuncia intemerato Fernando Vallespin, ex direttore dell’Istat iberica. Si rivoterebbe a giugno, e questa volta Podemos punta al colpaccio: superare il Psoe e guidare la sinistra spagnola. La Spagna resta divisa tra testa, cuore e pancia. Dal bipartitismo sostanziale a un bilico multiplo e rischioso.