Si è aperta il 3 maggio alla Triennale di Milano la mostra Traces of light, organizzata da We World Onlus nell’ambito del Festival dei Diritti Umani. Le foto di Lorenzo Tugnoli e di Diego Ibarra Sànchez (reporter del New York Times) illustrano il dramma dei profughi siriani in Libano. We World, attiva in 29 Paesi con 128 progetti, opera da tempo in quel Paese per il sostegno a chi è fuggito dalla guerra. «Per noi – spiega Marco Chiesara, presidente di WeWorld – queste persone non sono solo beneficiari, ognuno rappresenta un incontro speciale, fatto di empatia e rispetto». La mostra dunque diventa anche occasione per illustrare progetti e attività umanitarie. Foto: di Lorenzo Tugnoli
A un italiano i premi World Press Photo e Pulizter 2019 per gli scatti sul conflitto e la crisi umanitaria in Yemen Ha cominciato nei primi anni Duemila con la gavetta, i provini a contatto in camera oscura, e nel 2019 ha vinto prima il World Press Photo e poi il Premio Pulitzer, il massimo riconoscimento del giornalismo americano, per i servizi sulla guerra e la crisi umanitaria nello Yemen pubblicati dal Washington Post. Circolano in rete le foto della redazione che lo applaude, e si capisce perché: da dieci anni, infatti, il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, il magnate di Amazon, non si aggiudicava un tale riconoscimento. Una carriera lampo, quindi, per Lorenzo Tugnoli, il fotografo italiano che ha sbancato l’America e che, al tratto, pare l’esatto contrario del reporter da film, tutto grinta e giubbotto milletasche. Occhiali tondi da intellettuale, pacato e ironico, percorso inusuale.
A cominciare da quella facoltà di Fisica di Bologna che, a un certo punto, viene abbandonata per la fotografia. «Ho fatto il mio primo portfolio, per gioco, all’età di 12 anni», racconta Tugnoli, arrivato a Milano da Beirut, dove risiede, per la mostra Traces of light. Organizzata da We World Onlus, espone lavori suoi e di Diego Ibarra Sànchez, che documentano la drammatica situazione dei profughi siriani in Libano, ai quali la Onlus si sforza di fornire acqua, servizi sanitari e istruzione. «Ma vivevo a Bologna negli anni del G8, delle marce contro la guerra, delle manifestazioni pacifiste, e fare fotografie era il mio modo di partecipare a quei movimenti. Il punto, quindi, non era avere la passione, quella c’era sempre stata. La vera svolta fu pensare di trasfor- marla in una scelta di vita, in una professione. E vivere di fotografia è sempre stato un’impresa ovunque, ancor più in Italia ». Tugnoli dice che ha imparato a fare il fotografo facendolo, «non ho frequentato scuole».
E quindi la gavetta di cui sopra, tanto lavoro e molti esperimenti. «Ho cominciato a fare viaggi in Libano, Palestina, Iran, quando non ero ancora un fotografo e stavo imparando il mestiere. Piccole prove per vedere se riuscivo a piazzare i reportage a questo o quel giornale. Poi, nel 2009, sono andato per la prima volta in Afghanistan. E ho continuato a viaggiare avanti e indietro finché, nel 2010, ho deciso di stabilirmi a Kabul».
Non poca cosa, perché Tugnoli ci resterà per quattro anni e mezzo, prima di trasferirsi a Beirut dove vive tuttora. Ma cosa fortunata. Arrivano incarichi da testate importanti. Il primo in assoluto è addirittura del Wall Street Journal, il quotidiano con la più vasta tiratura al mondo. «Dal punto di vista professionale l’avevo proprio azzeccata. La missione Onu e quella Nato erano all’apice, c’erano 100mila soldati occidentali in Afghanistan, quindi il quel periodo l’interesse dei media era forte. Le Ong erano numerose sul posto e mi chiedevano molti lavori.
Nello stesso tempo la crisi economica internazionale si faceva sentire, i giornali mandavano sempre meno i fotografi, e di fotografi residenti a Kabul come me ce n’erano pochi. Nacque allora la mia collaborazione con i giornali americani, Washington Post compreso». Oltre al lavoro per i giornali, resta di quegli anni The little book of Kabul, una serie di immagini (sono visibili sul sito www.lorenzotugnoli. com) dedicate agli artisti e ai creativi della capitale afghana. Dirlo adesso è facile. Ma c’è già, in quelle fotografie, molto del neo-Pulitzer che, come molti italici 'cervelli in fuga', da un paio d’anni è tornato in qualche modo in Italia, facendosi rappresentare dall’agenzia Contrasto.
Una delicatezza e un garbo (se possiamo usare questo termine obsoleto) che tornano anche nei reportage sullo Yemen della catastrofe umanitaria, o sul Libano dei profughi siriani. Dicono che Tugnoli cerchi sempre, anche nella tragedia, un barlume di poesia. E lui che cosa dice? «Alle volte ho questa impressione: fotografiamo una serie di soggetti ricorrenti, che sono ormai come dei topos del nostro lavoro. Il rifugiato, il bambino denu-trito, il miliziano col mitra...
Un po’ come accadeva ai pittori del Rinascimento, che replicavano sempre gli stessi temi. Ciò che davvero importa, oggi come nel Rinascimento, non è quindi il cosa ma il come. Come lo rappresento questo bambino, questo profugo, questo miliziano? Ecco, io credo che non sempre la fotografia debba riportare un fatto tal quale ma anche indagare una suggestione, un ricordo, una speranza. È una questione di stile artistico, ma soprattutto di rispetto per le persone». A pensarci, Tugnoli forse ci dice che le fotografie che non si fanno 'pesano' quanto quelle che si fanno. Ma come si riesce a essere giornalisticamente efficaci essendo nello stesso tempo pronti a rinunciare all’effetto, o all’effettaccio? «Il punto non è come si fa. Il punto è: ci proviamo? Ci chiediamo cosa stiamo facendo mentre siamo lì? Questo bambino lo devo proprio fotografare così? L’importante è porsi la domanda e lavorare su di essa invece di correre subito a caccia del risultato».
Diventa quindi inevitabile chiedersi quale sia il fine ultimo di una fotografia. «Ciò che la fotografia deve fare, secondo me, non è choccare la gente ma metterla in connessione con le persone che si trovano in una certa situazione e vengono fotografate. La foto d’effetto può anche attirare l’attenzione e procurare qualche lettore in più. Ma se una foto crea una connessione umana, cioè ti fa vedere qualcosa di te in quell’altra persona, allora tutti diventiamo davvero più interessati a sapere che cosa sta succedendo. Le foto sono domande, non è detto che siano anche risposte».
Un’ultima curiosità. Il Pulitzer che cominciò con le marce per la pace definirebbe, oggi, 'politica' la propria fotografia? «No. La mia coscienza di cos’è e a cosa serve l’immagine è molto cambiata da allora. Non credo più che le fotografie cambieranno il mondo. Penso, invece, che un’immagine, una volta pubblicata, ha una sua vita e fa il suo lavoro. L’importante è essere onesti con le persone e nel modo di raccontarle».