I volti dei terroristi tagiki mostrano evidenti segni di tortura - Ansa
Volti devastati, abiti sporchi e laceri, andature ondeggianti, voci rotte e parole quasi sussurrate nelle confessioni estorte. I quattro presunti terroristi della Crocus City Hall, accusati di essere i freddi e impietosi autori di un massacro feroce e imperdonabile compiuto su civili inermi radunati per ascoltare musica appaiono come poveri diavoli quasi inconsapevoli. Arruolati, dicono, con qualche migliaia di euro per un’azione che nessuno di noi vorrebbe nemmeno vedere e che costerà anche a loro la vita (meritano certo punizione) oltre ad avere mietuto 140 caduti innocenti.
Dov’è l’arrogante certezza dei fondamentalisti che pensano di combattere per la verità e disprezzano il mondo corrotto? La spiegazione è squadernata davanti ai nostri occhi, senza tentativi di celarla, e non ce ne accorgiamo nemmeno più: è la tortura che piega la resistenza di chiunque quando il dolore e l’umiliazione raggiungono l’acme e svuotano tutti di resistenza e dignità se diventano insopportabili. Una tortura esibita e quasi accettata nel quadro degli orrori che siamo ormai abituati a ricevere mediaticamente. Se in Ucraina e a Gaza sono bambini, donne e anziani a essere bombardati, colpiti, violati, e abbiamo ormai poche lacrime per la loro sofferenza, chi avrà pena degli stragisti tagiki, sbucati per uccidere da una landa lontana e sconosciuta?
Eppure, non possiamo rassegnarci alla tortura.
Certo, nessun Paese può dare lezioni alla Russia se si considerano tanti episodi recenti che hanno macchiato le nostre democrazie - dalle famigerate sevizie nel centro di detenzione americano in Iraq di Abu Ghraib ai meno sistematici e gravi, ma ugualmente degradanti fatti della scuola Diaz durante il G8 di Genova. Eppure, in quei casi un gradino nella scala della disumanità rimaneva non calcato: della tortura ci si vergognava, si provava a nasconderla, nella certezza che fosse inaccettabile e condannata dall’opinione pubblica. Le forze dell’ordine di Mosca, e il regime nel suo complesso, non temono invece il giudizio e hanno deciso di dare più pubblicità possibile al mancato rispetto dei diritti inviolabili dei detenuti. Non solo nelle conseguenze, bensì pure nell’atto stesso - con l’insostenibile video dell’orecchio mozzato e messo in bocca a uno dei prigionieri. La tortura come reazione “legittima” per il nemico - il miliziano, il soldato o il civile, poco importa (come è accaduto a Bucha, va ricordato, nelle prime settimane dell’invasione).
A Mosca, non esistono garanzie né eque procedure per chi si oppone o dissente - da Anna Politkovskaja a Alexeij Navalny -, tanto meno vi sono limiti nell’infierire - persino prima del giudizio - su coloro che hanno commesso gravi reati. La pratica della tortura continua a interrogare la nostra capacità di trattenere la vendetta e di riconoscere nell’altro un nostro simile, qualunque sia il suo tragitto esistenziale. Quella fratellanza che è così difficile da cogliere in chi spara sul suo prossimo senza alcuno scrupolo, e che può emergere solo al pensiero di un Padre comune. Se ci rassegniamo inerti alla tortura che punta ad annichilire la tempra fisica e morale delle vittime, ogni civiltà è persa. E, qui, Putin è già sconfitto.