Tutte le nuove Repubbliche della penisola balcanica sono in una situazione di stallo. In tanti mordono il freno, pronti a rimettere in moto il confronto violento, spesso praticandolo come dalle cronache. Nell’immobile teatro dei resti e delle macerie della ex-Jugoslavia – con le promesse mancate di restituzione e distribuzione delle proprietà personali e statali, con gli odi per tutto ciò che è fuori dallo stabbio della comunità – i territori più devastati sono quelli del Kosovo, Repubblica indipendente da 10 anni. La popolazione, nonostante il diagramma sempre in crescita delle nascite, è diminuita e non supera il milione e ottocentomila abitanti. Gli abitanti di religione ortodossa, cioè i serbi, sono ridotti a poco meno di 100.000 – erano 360.000 all’inizio degli anni Novanta –, vivono arroccati nella enclave dei monasteri del Nord, i grandi eremi di Decani e Pec, siti Unesco, e gli altri luoghi di culto non protetti, sopravvivono nei quartieri di poche città, come a Mitrovica dove il fiume Ibar divide due mondi (con barricate tolte, rimesse, tolte): da una parte bandiere serbe, amministrazione serba e anche valuta serba, dall’altra gli albanesi kosovari e i loro contrassegni identitari.
Un mese fa a Mitrovica è stato ucciso a pistolettate Oliver Ivanovic, leader serbo-kosovaro di 65 anni. Ivanovic, da sempre un politico pragmatico, era impegnato nella diplomazia di mediazione che lavora a una ipotesi definitiva. Il disegno iniziale di un Paese dove fosse possibile la convivenza tra serbi, albanesi e altre culture è fallito. Si lavora adesso a una secessione pacifica del Nord, con l’enclave serba unita anche territorialmente alla Serbia. In cambio, cesserebbero attriti e sanguinosi confronti interni, finirebbero le diffuse ostilità e sbarramenti di Russia, Cina, Spagna e altri Paesi che non riconoscono la repubblica kosovara, anzi si oppongono alla sua entrata nelle Nazioni Unite, a trattati commerciali e a programmi di aiuto. Chi ha ucciso Oliver Ivanovic? I nazionalisti di una parte e dell’altra del fiume Ibar si accusano a vicenda – come dall’inizio, come sempre, inconciliabili. Nel 1998, quando i serbi iniziano la pulizia etnica dei villaggi prossimi all’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) e un intero popolo si presenta a piedi, sfollato, vestito come vestono i pastori e i viandanti al confine della Macedonia e dell’Albania, il confronto violento diventa irreversibile. Sconfitti dagli eventi Ibrahim Rugova e Adem Demaci nelle loro politiche di 'resistenza passiva' e 'resistenza attiva'.
Il confronto armato è complesso: ci sono le bande interne sotto le insegne dell’Uck con alla guida figure dall’incerto e non rassicurante profilo come Hashim Thaçi, soprannominato 'serpente' – oggi presidente della piccola Repubblica, già accusato di crimini di guerra – e c’è l’appoggio sul campo di varie forze in armi tra cui l’Italia e ci sono i bombardamenti della Nato sia in Kosovo sia nelle città serbe – sui ponti sul Danubio a Novi Sad, nel centro della capitale Belgrado, sugli stabilimenti Fiat a Kragujevac. Una banale ma monumentale statua che raffigura Bill Clinton – un paradosso per uno vivo e vegeto – si alza a Pristina a ringraziamento degli americani alleati nella battaglia per l’indipendenza. Effettivamente, soldati con la bandiera americana sulla divisa risalivano su chiatte, nel settembre 1999, con piccoli blindati il fiume albanese Drin e attraversavano il lago artificiale albanese di Vaut te Dejes per presentarsi al confine con il Kosovo, alla 'porta di Padesh' sulle Alpi albanesi (Alpet Shqiptare) che apriva sugli avamposti Uck consolidati in territorio kosovaro, come a Koshare, sopra le cittadine Junik e Giakov. C’erano anche compagnie di mortaisti italiani sopra il villaggio di confine Bajram Curr, che tiravano sulle postazione serbe, là dove sorgeva un gruppo di capanni di pastori con i tetti coperti da fascine e le pareti in muratura e su queste pareti era appeso il Kalashnikov. Tutto vero, ma la causa, l’origine del disastro, sta nella politica di Slobodan Miloševic. È qui, nella 'piana dei merli' (il kosovo polje del mito serbo) che, nel 1989, Miloševic rivela la sua vocazione nazionalista. Ed è con la cancellazione delle autonomie riconosciute dal 1974 al Kosovo e alla Vojvodina che Miloševic inaugura la sua gestione. Qui, nella provincia kosovara, avviene l’invio di truppe speciali e bande paramilitari, con un crescendo di violazioni di diritti, uccisioni di semplici cittadini, pulizia etniche di interi villaggi, incarcerazioni.
È storia ormai. Sono per fortuna scomparsi, tornati nelle bettole balcaniche dei complotti, i vari progetti – emersi nello sfacelo di fine anni Novanta – di cumulazione in un’unica entità politica e territoriale degli albanesi dei Balcani (Albania, Kosovo, Macedonia) che, con la bandiera rossa e l’aquila bicipite, andavano nelle speranze di Demaci sotto il nome di 'Balkania' o più tardi di 'Grande Albania'. Avanza addirittura l’ipotesi di una riduzione del territorio kosovaro con una quota ceduta alla Serbia. Si fa concreta l’ipotesi della istituzione di una Corte Speciale che finalmente porti a processo ed emetta sentenze sui crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Kosovo nel periodo del confronto armato tra il 1998 e il 1999. Crimini attribuibili ai serbi in armi, ma anche agli albanesi dell’Uck.
Nodi del passato che si intrecciano, gordiani, con i problemi dell’oggi. La stragrande parte della popolazione è albanese di religione musulmana. La grande moschea di Pristina si dice sia frequentata da elementi radicali. Ci sono stati arresti: foreign fighters disoccupati, al ritorno dalla Siria e dall’Iraq. Kosovaro non suona bene. Si vive qui di rimesse degli emigrati che costituiscono anche una riserva di valuta pregiata per uno Stato che ha un sistema bancario poco affidabile. L’economia non ha una direzione, si sono fatte autostrade, ma l’edilizia e la costruzione di infrastrutture più o meno utili hanno avuto la loro stagione migliore nell’immediato dopoguerra. Adesso cresce la disoccupazione, e c’è un Paese in balìa di altro da sé, che non si governa, che non è consapevole dei passaggi e delle decisioni politiche.
Qui ogni ascesa diventa mito, per esempio quel Behgjet Pacolli, globale costruttore edile, già marito di Anna Oxa, amico di Eltsin, kosovaro con passaporto svizzero. Da lui si aspettava molto il piccolo e travagliato Paese. Diventa presidente del Kosovo, ma solo per poche settimane dal 22 febbraio 2011 all’aprile dello stesso anno, perché la Corte costituzionale dichiara illegittima l’elezione e lo costringe alle dimissioni. Sapore di operetta, di Tomania e di Ostria ('Il grande dittatore'), vite umane low cost, terre di nessuno. Molti pensano in Kosovo a una Unione Europea che comprenda e bilanci le realtà in bilico dell’ex-Jugoslavia. Ci vorrebbe uno spostamento di baricentro dagli Usa all’Europa, un recupero di senso del Vecchio Continente, della sua centralità nella elaborazione di un nuovo decalogo dei diritti e della convivenza.