Monsignor Italo Dell’Oro con una famiglia di migranti nel centro Caritas di Houston - .
«Il peggio è stato il Messico. Abbiamo camminato per tre giorni e tre notti, fermandoci solo poche ore per dormire, perché non era sicuro. Ci sono stati periodi in cui non avevamo niente da mangiare. Ma Dio e molte persone di buon cuore ci hanno aiutato». José Sanchez finisce di parlare e accenna un sorriso. È esausto, gli occhi gonfi e i gesti lenti lo confermano, ma stenta a prendere sonno sull’autobus che lo porta da un rifugio di El Paso a Houston. Il viaggio è lungo, dal confine con il Messico fino al centro del gigantesco Stato americano che è diventato il ground zero dell’emergenza immigrazione negli Stati Uniti. Sono 12 ore, di notte. Sia José che la maggior parte degli occupanti del bus, a parte i bambini accoccolati con le teste sulle gambe dei genitori, continuano a parlottare fra loro. Le emozioni sono forti.
Ogni passeggero di questo autobus organizzato dalla Caritas dell’arcidiocesi di Houston Galveston ha documenti rilasciati dal dipartimento Usa della Homeland Security che l’autorizza a rimanere negli Stati Uniti fino all’aggiudicazione della sua domanda di asilo. Non è ancora un biglietto vincente della lotteria, perché la clausola della permanenza è non lavorare fino alla decisione del giudice, ma poco ci manca. « Rispetto a una settimana fa, è il paradiso», continua Sanchez, che ha 24 anni ed è in viaggio da due mesi. In effetti essere qui è una fortuna che spetta a pochi di quelli che hanno lasciato il loro Paese in cerca di un luogo sicuro dove potersi guadagnare da vivere. « Ho disertato dall’esercito perché il governo ci obbligava a usare le armi contro la gente che protestava – racconta Ismael, nicaraguense –. Pensavo che mi avrebbero aiutato in Messico, ma al ponte di confine abbiamo chiesto protezione e ci hanno respinto. Sono tornato, di notte. Mi hanno arrestato, mi hanno tenuto tre mesi in un centro dove vivevamo come animali. Mi hanno riportato al confine. Sono tornato e sono riuscito ad attraversare il Paese nascondendomi dalla migra e dai cartel. Non so come ci sono riuscito. Un mio amico è stato rapito da una banda che ha chiesto soldi alla sua famiglia in Nicaragua».
Tutti parlano dell’incubo del Messico, che è una delle ragioni per le quali non sono molti in questi giorni ad arrivare a Houston: un autobus alla settimana rispetto ai 5 o 6 d’inizio anno, come spiega Karina Hernandez, direttrice del centro per immigrati della Caritas. Sotto pressione da parte dell’Amministrazione Biden, infatti, il presidente messicano López Obrador ha dato un giro di vite ai passaggi nel suo Paese. Ha imposto nuovi requisiti per i visti, rendendo più difficile l’ingresso di brasiliani, venezuelani ed ecuadoriani e ha stabilito l’obbligo di dimostrare lo stato d’immigrazione legale per viaggiare su autobus e aerei interni. Ha anche aumentato le deportazioni di bambini e adolescenti. Tra gennaio 2021 e maggio 2022, 98.671 minori sono stati detenuti (in violazione della legge messicana), il 55% rimpatriati in Paesi come l'Honduras, che registra il più alto tasso di omicidi di bambini al mondo.
Chi arriva a Houston dopo aver attraversato il Messico tra mille ostacoli non può lavorare prima di ottenere asilo, o cerca uno sponsor
A causa anche della stretta del Messico, rispetto ai mesi immediatamente precedenti la scadenza di Title 42, la misura voluta da Donald Trump per espellere in modo sommario gli immigrati, non è diventato più facile presentare domanda d’asilo negli Usa. « L’ondata temuta non si è materializzata – spiega ancora Hernandez –. Resta solo chi ha uno sponsor, chi ha diritto di ricongiungimento familiare o proviene da un Paese riconosciuto come pericoloso». Questi ultimi, cubani, nicaraguensi, venezuelani, ucraini e haitiani, sono i più fortunati perché possono lavorare da subito. Per gli altri l’incertezza non è finita. Gli sponsor spesso svaniscono dopo qualche giorno o qualche settimana. Allora comincia la corsa contro il tempo dei volontari per trovarne un altro. «Spesso è una parrocchia intera che si mobilita. Poi bisogna farglieli arrivare il più presto possibile, perché possano riavviare da là il loro caso legale», dice Cynthia Colbert presidente della Caritas di Houston, facendo notare che è aumentato il numero di famiglie con bambini, perché queste non vengono mai espulse immediatamente. In effetti sul bus ci sono 11 minori.
Una coppia dal Peru ha tre figli al seguito: di 6, 4 e 2 anni. Devono andare a stare con amici di amici che non hanno mai incontrato, fuori Houston. La madre, Lucia, ha paura che quando li vedono si spaventino e li buttino fuori. «Farò tutto quello che posso. Posso lavorare in casa, aiutarli, fare da mangiare, pulire», dice, quasi in lacrime, mentre il marito la invita a calmarsi. Una famiglia intera è un’eccezione. Spesso le madri si mettono in viaggio da sole con i figli. La maggior parte ha con sé solo una borsina di plastica. Tutti sono partiti con poco e hanno perso molto durante il viaggio. Tengono i documenti d’identità e i diplomi, per chi ne ha, addosso, cuciti nei vestiti. Sentendoli parlare, mentre la luce dietro le teste inquadrate nei finestrini si affievolisce, si è sopraffatti dal mare di bisogni che hanno e che avranno. Il vescovo ausiliare Italo Dell’Oro, spesso al centro di accoglienza di Houston a ricevere i nuovi arrivati, li elenca. « La maggior parte non parla inglese, e uno dei nostri primi sforzi è farli sentire a casa – dice –. Abbiamo impiegati e volontari che parlano 20 lingue, dallo spagnolo all’indiano, dal cinese all’ucraino. Se hanno problemi di salute abbiamo un medico e medicinali da banco. I bambini hanno bisogno di latte in polvere. Tutti ricevono vestiti e prodotti per l’igiene personale».
Ci sono immigrati con sponsor e senza sponsor; dentro la quota di 30mila al mese permessi da certi Paesi e fuori dalla quota; con carte della Homeland security e con carte dell’Ice (l’autorità federale per l’immigrazione), con caso legale accelerato e con appuntamento in tribunale fra tre anni. Con minori, senza minori. La Caritas texana, insieme a dozzine di parrocchie, alle risorse legali dell’arcidiocesi, ad alcune associazioni cattoliche di volontariato e alla buona volontà di decine di sacerdoti e vescovi, cerca di tenere tutto insieme. Ha aperto un centro per la prima assistenza a El Paso. Collabora con Border patrol, gli agenti di frontiera, per sapere quando e quanti bus mandare al confine. A Houston ha messo in piedi il Transit Center per i primi aiuti e un rifugio di lungo termine, e mobilita gruppi non profit, come Casa Juan Diego, che assistono i richiedenti asilo nel trovare un appartamento e un lavoro e avviano le pratiche per il riconoscimento dei titoli di studio. Centinaia di volontari aiutano come possono, fornendo assistenza legale pro bono o raccogliendo generi alimentari. « I migranti sono estremamente grati. Hanno attraversato la giungla, hanno dormito per strada, sono scappati da condizioni economiche difficili nel loro Paese d’origine e dalla violenza. La loro fede è forte. Sanno che Dio li ha guidati», dice ancora Dell’Oro. A volte la Caritas e le associazioni non possono offrire sistemazioni ideali. Amici che hanno fatto il viaggio insieme non sempre trovano spazio nello stesso rifugio e finiscono in città diverse. I ragazzi maschi sopra i 16 anni spesso non sono ammessi nei rifugi temporanei per famiglie e devono andare altrove. Ma il mondo cattolico texano resta il tessuto connettivo fra gli immigrati e un mosaico di istituzioni, federali, statali e locali.
È l’alba, mancano due ore a Houston. Dolores, minuta, che sembra una bambina tranne che per gli occhi, cerchiati di nero e adulti, chiede all’autista, che parla spagnolo, quando sarà la prossima sosta. Ha lasciato il Venezuela da sola a 15 anni, è rimasta in Messico per tre ed è riuscita solo ora ad arrivare negli Usa. Vorrebbe andare in Canada, che immagina accogliente, e con tanto spazio per tutti. Ma per ora il suo obiettivo è arrivare nella stanza d’hotel di Houston che le hanno promesso al centro di El Paso e poter fare una doccia. «Grazie a Dio, sono qui».