Dopo i crocifissi in Italia, tocca alla legge antiabortista irlandese. Nei giorni scorsi si è svolta infatti a Strasburgo, davanti ai 17 giudici della Grande Camera della Corte europea dei Diritti dell’uomo, l’udienza sul ricorso promosso contro l’Irlanda a causa della sua legislazione contraria all’aborto. Il caso è giunto avanti alla Corte a seguito della richiesta avanzata da tre donne di veder riconoscere il 'diritto' di abortire anche nell’isola, anziché dover cercare – come loro hanno fatto – una soluzione in Inghilterra. L’interruzione volontaria della gravidanza è illegale in Irlanda – a meno che la vita della donna non sia in grave pericolo –, tanto che persino la Costituzione è stata modificata nel 1983 per includere un emendamento prolife: «Lo Stato – si legge nella Carta – afferma il diritto alla vita del nascituro e, tenuto conto dell’eguale diritto alla vita della madre, garantisce nella propria legislazione il riconoscimento e, per quanto possibile, l’esercizio effettivo e la tutela di tale diritto, attraverso idonee disposizioni normative». Davanti ai giudici di Strasburgo, che si pronunceranno nei prossimi mesi, il governo irlandese non ha esitato a difendere a spada tratta la propria Costituzione e le norme che ne derivano in tema di aborto, argomentando che «il diritto alla vita del nascituro è basato su fondamentali valori morali profondamente radicati nel tessuto sociale irlandese». A prescindere dal merito dei singoli casi pendenti avanti la Corte (prima il crocifisso, ora l’aborto), la questione più generale che si pone è di capire se sia ammissibile che la cultura, la tradizione, i valori e persino le norme approvate in Parlamento attraverso un processo democratico possano essere messe in discussione da un organismo internazionale artificialmente creato e del tutto avulso dal contesto che è chiamato a giudicare. Il paradosso si ingigantisce se si considera che quella cultura, quelle tradizioni, quei valori e quelle leggi appartengono a uno Stato membro dell’Unione Europea e possono essere smantellate da un organismo che con l’Unione non ha nulla a che vedere. Sì, perché la 'Corte europea dei diritti dell’uomo', non è un’istituzione della Ue e non va confusa, come spesso accade, con la Corte di giustizia europea, che invece è, a tutti gli effetti, un’importante componente dell’architettura istituzionale comunitaria. Gli strenui difensori dei princìpi liberali e democratici si dovrebbero porre il problema se sia giusto consegnare la sovranità popolare di un Paese membro della Ue nelle mani di 17 uomini delle più disparate estrazioni, visto che fanno attualmente parte della Corte anche giudici provenienti da Turchia, Macedonia, Albania, Montenegro, Moldavia, Georgia e persino dall’Azerbaigian. Sono costoro che hanno la facoltà di giudicare cultura, tradizioni, valori e leggi di Paesi civili e democratici del Vecchio Continente come l’Irlanda e l’Italia, accomunati – guarda caso – dal 'difetto' di essere entrambi di tradizione cattolica. Quando scoppiò il caso dei crocifissi, scoprimmo che il giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo in rappresentanza dell’Italia è Vladimiro Zagrebelsky, talmente imparziale da aver meritato il premio di 'Laico dell’anno 2008' conferitogli dalla Consulta torinese per la laicità delle istituzioni, aderente alla Ehf-Fhe, la Federazione umanista europea. E purtroppo abbiamo potuto già verificare che 'laicità' in questo caso non fa rima con 'terzietà' e neanche con 'serenità' (di giudizio).