Si fa presto a dire accoglienza. Una cosa è leggere storie edificanti sui giornali, ascoltare la predica di qualche parroco che invita ad aprire le porte di casa, o appellarsi alla storia italiana che pullula di migrazioni verso altre terre. Un’altra cosa è vedersi recapitare un messaggio da un amico che scrive: «Puoi ospitare per un po’ di tempo Harouna? Ha 23 anni, viene dal Mali, ha un permesso di soggiorno per motivi umanitari, cerca casa e lavoro».
Allora la parola accoglienza diventa carne, assume un volto e un nome, si trasforma in una sfida alla tua ordinaria tranquillità. E fa nascere domande nuove, ti mette in discussione. È successo così, esattamente un anno fa, a Stefania e Ignazio – riminesi purosangue, sposati, tre figli, una bella famiglia in una bella casa – quando hanno letto sul cellulare quelle parole scritte da un amico che collabora con la Caritas. Stesso messaggio, reazioni opposte. Lei ha detto subito 'sì', vedendo in quell'ospite inatteso la possibilità di imparare ad amare gratuitamente, lui ha cancellato il messaggio: perché aprire le porte di casa a uno sconosciuto, che non parla la tua lingua, che ha abitudini verosimilmente molto diverse dalle tue, che ti costringe a mettere in discussione un’esistenza tranquilla? Sono seguiti giorni di dialoghi con i figli (che da subito si erano aperti a questa avventura), confronti con gli amici, ripensamenti, e alla fine Ignazio ha deciso: ci voglio almeno provare, poi decideremo.
E così è arrivato Harouna, alle spalle due anni di viaggio attraversando il Mali e il deserto dell’Algeria, poi la Libia e la traversata del Mediterraneo fino alla Sicilia, l’arrivo a Rimini dove è stato preso in carico dalla Caritas che ha cercato una famiglia disponibile a ospitarlo. La conoscenza diretta, l’esperienza di un incontro con una persona sono stati i passi decisivi per incrinare il muro di diffidenza – e, in fondo, di paura – che Ignazio si era costruito nella mente. La prova è durata giorni, settimane, fino a diventare un 'sì'. Fino a un dialogo tra i due, quando l’africano chiede al riminese: «Ignazio, io e te siamo uguali?». E l’altro risponde: «Ma ci vedi? Tu sei nero, musulmano, parli un’altra lingua, hai abitudini lontane dalle mie. Non siamo uguali, ma qui sta il bello: siamo talmente diversi che l’uno aiuta l’altro a capire chi è. Sai cosa abbiamo di uguale? Il nostro cuore».
Proprio a partire da una scommessa sul cuore, sull'umanità che ci accomuna, la convivenza con Harouna si è rivelata una ricchezza per tutta la famiglia, che ha guardato stupita la tenacia con cui si è messo a studiare per prendere il diploma di terza media, e nello stesso tempo l’impegno per imparare a fare il fornaio lavorando di notte, la disponibilità a tenere in ordine la casa. E hanno lasciato il segno certe sue uscite spiazzanti, come quando una mattina – di ritorno dal lavoro notturno al forno – Ignazio gli ha chiesto come potesse avere una faccia così felice, e lui ha risposto: «I denti sono bianchi anche se sotto scorre il sangue rosso. È un modo di dire che circola nella mia terra, significa che anche se uno ha tanti dolori la vita dona sempre qualcosa di bello per cui possa sorridere».
Ospitare Harouna ha significato capire che l’accoglienza porta con sé la dimensione della reciprocità, perché ognuno è sfidato ad accogliere l’altro nella sua umanità e diversità, nella sua onestà. Ed è stata l’occasione per scoprire che è una pratica più diffusa di quanto si potrebbe pensare, immersi come siamo in un clima dove la diffidenza, la paura e il rancore sembrano prevalere.
Così, partecipando a un convegno, Stefania e Ignazio hanno scoperto che solo a Rimini, nella loro città, vengono ospitati o aiutati in famiglia 118 migranti, e che in tutta Italia, dal basso sta crescendo una rete fatta da migliaia di persone che aprono le porte di casa, offrono occasioni di lavoro, aiutano nell'apprendimento dell’italiano, contribuiscono donando indumenti e oggetti di prima necessità. Un popolo che si muove e costruisce, anche quando leggi e regolamenti vanno in direzione opposta. Un pezzo d’Italia che dobbiamo imparare a conoscere più da vicino e che forse qualcuno non s’aspetta proprio, non s’aspetta più. Un pezzo d’Italia costruttivo e contagioso. Una cosa solo apparentemente piccola, come ha detto il vescovo di Rimini Francesco Lambiasi dopo avere conosciuto la loro storia: «Dentro il buio che ci circonda, avete acceso una luce che tiene accesa la speranza».