Un segno di ragionevolezza e di speranza – se non è solo un tentativo di dettare condizioni all’avversario – sembra essere alfine giunto dal fronte di Gaza. L’accettazione della tregua da parte di Hamas potrebbe portare all’agognato, e ormai indispensabile, cessate il fuoco. Il movimento fondamentalista aveva riaperto le ostilità con il lancio dei razzi sul territorio israeliano e spetterebbe ad esso dare il primo assenso al piano di mediazione predisposto dall’Egitto. Dall’avvio della risposta difensiva dello Stato ebraico, lo scorso 27 dicembre, la situazione è però andata rapidamente mutando, aprendo uno scenario quanto mai ricco di incognite. Al primo punto non si possono non porre gli oltre mille morti nella Striscia: sicuramente tanti sono civili (forse il 40%) e, tra essi, si contano moltissimi donne e bambini. Ogni vita persa pesa in dolore condiviso e responsabilità di chi ne provoca la fine. Vittime si sono registrate per i missili lanciati dai palestinesi, vittime erano tragicamente inevitabili nell’azione militare a tutela delle cittadine prese a bersaglio. Ma i troppi caduti innocenti – pur colpiti per errore o per sottovalutazione dei cosiddetti danni collaterali – segnalano quello che anche il segretario generale dell’Onu ha definito «un uso eccessivo e indiscriminato della forza». Ampiamente si è discusso della legittimità dell’azione israeliana e della 'proporzionalità' che essa avrebbe dovuto assumere – e che ha, agli occhi di tutti, ecceduto. Antichi riflessi condizionati subito fanno scattare posizioni precostituite: chi critica Israele diventa immediatamente, in gradazione, affetto da pregiudizio antigiudaico o antisionista (quando non antisemita), nonché acriticamente filoarabo; chi difende l’esistenza minacciata della nazione con la Stella di Davide viene accusato di insensibilità umanitaria o addirittura di bellicismo gratuito. Nel lungo periodo il conflitto ha radici lunghe e intrecciate. La morsa in cui è stata chiusa Gaza ha dato fiato agli estremisti, ma il terrorismo è cresciuto e ha prosperato, estromettendo la componente moderata dell’Anp e impedendo la prosecuzione del dialogo. Inoltre, potenze straniere della regione hanno alimentato l’incendio con lo scopo esplicito di colpire Israele. Ma oggi bisogna anche guardare oltre. La struttura militare di Hamas è stata certamente indebolita, non annientata. Se verrà varato l’accordo che prevede un ferreo pattugliamento dei confini da parte di una forza internazionale, i suoi arsenali non dovrebbero tornare a riempirsi. Difficile però che il milione e mezzo di palestinesi che hanno visto cadere figli, parenti, amici e distrutta parte delle poche infrastrutture della Striscia possano a breve termine esprimere una leadership alternativa e dialogante. Una volta ottenuto lo stop alla pioggia di razzi, Israele avrà l’obbligo morale e l’interesse tattico di allentare la stretta su Gaza, dando via libera (e forse anche contribuendo) alla cura dei feriti e alla ricostruzione materiale. Un gesto formale di scuse per i caduti civili non servirà a restituirli ai loro cari, avrebbe tuttavia un valore simbolico nuovo. Un gesto che oggi non pare probabile, mentre infuria a Tel Aviv la campagna elettorale, giocata sulla capacità muscolare di garantire sicurezza al Paese. Il futuro equilibrio della regione passa per la consapevolezza che con le armi non si costruisce nulla di buono, né di duraturo. L’Amministrazione americana entrante, la sempre divisa e titubante Unione europea, gli opportunisti leader arabi potranno cercare di riportare israeliani e palestinesi a un tavolo negoziale. Saranno però i due popoli, le due opinioni pubbliche – con le note differenze di spazi democratici d’espressione – ad avere l’opportunità di imprimere una vera svolta. Perché i lutti di questi giorni di guerra e il sangue versato siano almeno monito a non ricadere nella spirale della violenza e seme di una pace e di una convivenza ancora possibili.