Cosa dice la Giornata per la Vita a un Paese provato da un anno di assedio pandemico e dalle dolorose emergenze che l’hanno segnato, gravando ancora come una nube sul futuro? E cos’hanno da dirgli la Chiesa e i cattolici, cui questo appuntamento – ecclesiale per genesi e sviluppo – appartiene da 43 anni, come un’intuizione da condividere? L’invito alla speranza che ogni nuova vita reca liberamente con sé è persino ovvio, e tuttora convincente: la carrozzina spinta per strada da genitori che intuiamo custodi del segreto permanente della felicità suscita pensieri di fiducia e simpatia universali.
Ma la traversata che tutti insieme stiamo compiendo dentro il continente ignoto di una crisi senza precedenti impone di collocare la potente suggestione di questa domenica che resta ancora tra le più partecipate nelle nostre parrocchie – dentro una realtà complicata quanto ineludibile, evitando astrazioni e ideologismi speculari a quelli che ancora dobbiamo registrare sulle opposte frontiere della vita. Sì, dentro una Giornata così c’è molto di più.
Perché oggi, e nel tempo che ci attende di corpo a corpo col virus (forse di lunga coabitazione ordinaria), la vita ci appare così com’è: non un discorso, o un tema, ma un fatto che si impone. E che mai come ora chiede rispetto, cura, impegno, coesione. Pochi giorni dopo la Giornata 2020 il virus iniziò a dettare la sua spietata legge: 90mila morti dopo, è evidente a tutti che non c’è un bene che si possa anteporre alla vita delle persone, in modo tutto speciale quand’è affidata alla comunità.
Non ci è lecito farla precedere neppure dalla libertà personale e collettiva, dimensione pure essenziale ma che l’esperienza di un anno – questo anno – mostra come necessariamente orientata a un bene, che è personale ma prima ancora di tutti, e non un geloso tesoro nascosto nel campo dell’egocentrismo.
È l’uso della libertà per servire la vita che garantisce la custodia di me stesso: anch’io sono affidato ad altri, alle loro scelte, che siano giuste o sbagliate sarà anzitutto la preservazione della vita come bene insindacabile a misurarlo.
Quando poi quel bene assoluto sarà a rischio mostrando tutta la sua fragilità – condizione che ora sappiamo accomunarci senza distinzioni o preferenze tra presunti "forti e sicuri" e presunti "marginali e sacrificabili", adulti anziani, bambini nati e non nati, italiani e stranieri, sani e malati – diverrà ancor più trasparente il suo affidamento alle mani degli altri, e quindi alla loro consapevolezza di non essere mai padroni di un bene vulnerabile, prezioso, irripetibile. Cioè un dono.
È questa una lezione che nessuna cattedra ci avrebbe spiegato in modo altrettanto efficace: ora è impossibile non sapere, non ricordare, che la vita non è "a disposizione", almeno per rispetto a chi sul campo di battaglia di un anno che ha imposto rinunce e patimenti a tutti ha lasciato affetti, lavoro, sicurezze, serenità, progetti, sogni. Per rispetto verso di noi e il nostro futuro.
Dal punto di osservazione di una Giornata della Vita resa imprevedibile e necessaria per ciò che l’ha preceduta e per quello che ci fa scorgere vediamo bene l’insufficienza di una cultura «pervasa di diritti individuali assolutizzati», come scrivono i nostri vescovi nella loro riflessione per oggi consegnata alla Chiesa e alla gente: un messaggio che accosta in modo suggestivo vita e libertà, cogliendo che è determinante ristabilire tra loro l’equilibrio corretto di pesi e proporzioni. Tra ciò che abbiamo visto e compreso della pandemia e del suo impatto c’è infatti anche l’inadeguatezza dei riferimenti dominanti che ispiravano la società, la cultura, l’economia, le stesse dinamiche globali.
Ascoltando papa Francesco e la sua originale riflessione sulla crisi, la Chiesa ci invita a ridiscutere fondamenta che si credevano granitiche, e invece si sono rivelate friabili perché si era scelto di farle poggiare sul terreno franoso dell’individualismo come motore di consumo e progresso, al posto del senso di comunità che suscita l’idea stessa della vita umana come centro e assoluto.
Invece si pensava (e purtroppo ancora si pensa) che fosse possibile renderla merce, oggetto, prodotto, moneta di scambio, con tanto di quotazione negoziata sul mercato delle priorità transitorie. Un errore di prospettiva arrogante e grave, ma forse ancora rimediabile.
L’invisibile e letale minaccia del Covid ha infatti mostrato in modo definitivo che c’è una roccia alla quale ci è necessario afferraci. Adesso è il momento per dirlo e per farlo. Non è forse questa nuova scelta della vita un programma di impegno che merita tutte le nostre energie, tutta la nostra libertà?