Difficile da spiegare alle nuove generazioni e ancora più dura da credere per chi oggi fa questo mestiere, eppure c’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui la figura del giornalista (di qualunque redazione) coincideva con quella dell’
aedo e una delle migliori sintesi si è realizzata nella figura nobile ed eclettica di Antonio Ghirelli.Chi, come il sottoscritto, sognava di fare del giornalismo sportivo e di colorarlo con il chiaroscuro del sociale e della storia, in Ghirelli poteva trovare una cometa da seguire. Un caposcuola, con il piglio del bravo e onesto professore che insegnava senza salire in cattedra e che aveva la straordinaria, e sempre più rara, capacità di ascoltare i giovani. Non era filantropia, ma la consapevolezza di un uomo che in ogni sua attività concepiva come primo articolo costituzionale: «Il fare al servizio degli altri». Mesi fa lo avevo contattato, dovevamo incontrarci per "una chiacchierata", da pubblicare il 10 maggio, giorno del suo 90° compleanno. Un’intervista, diventata impossibile, per ripercorrere quasi un secolo che Ghirelli ha affrontato, vissuto e raccontato da storico, da giornalista, direttore di giornale, portavoce politico, scrittore e saggista di razza. Un intellettuale a tutto tondo, anche quando parlava e scriveva di calcio che, come Pasolini, considerava un elemento essenziale della cultura del nostro Paese.Il suo libro la
Storia del calcio in Italia (la prima edizione è del 1954) costituisce una pietra miliare e la dimostrazione, tutta ghirelliana, che una tribuna privilegiata per capire questa nostra folle Repubblica era e rimane quella che si affaccia su uno stadio. A cominciare dal San Paolo della sua Napoli, e del Napoli che ha cantato dai primi fasti dello svedese Jeppson all’epopea leggendaria dell’era Maradona, fino ai tre “tenores” di De Laurentiis. Nel suo lavoro incessante di “osservatore romano”, ma con il cuore attraccato perennemente al porto di Mergellina, Ghirelli ha sempre colto e fatto comprendere a chi era digiuno di questioni napoletane vizi e virtù di un popolo e di una tradizione unica, usando come mezzo di più facile divulgazione le vicende sportive. In tal senso vanno lette le direzioni dei quotidiani il
Corriere dello Sport e
Tuttosport. E se Gianni Brera è stato “il Gadda prestato allo sport”, allora Ghirelli era – qualcuno sobbalzerà – il Benedetto Croce del pallone italico.Nell’Italia delle fazioni, di Coppi e Bartali e della staffetta antagonista Rivera-Mazzola, è esistita una scuola nordica breriana, contrapposta a una sudista-campana, incarnata da Gino Palumbo. E quest’ultima corrente filovesuviana non era affatto tutta «violini e mandolini», come voleva Gianni Brera – acerrimo avversario di Palumbo –, ma aveva un respiro unitario e nazionale, proprio grazie alla presenza al suo interno del pensiero profondo di Ghirelli. Un regista alla Di Stefano, che ha spaziato a tutto campo, ritrovandosi dalla tribuna stampa dei Mondiali cileni del ’62, a quella del Quirinale, al fianco del “presidente partigiano”, come lui, Sandro Pertini. Non fece in tempo a vivere la notte Mundial di Spagna ’82, perché si era dimesso (ennesima rarità) per andare a lavorare con il presidente del Consiglio Bettino Craxi, che difese poi anche dalla gogna di piazza, in quanto lo considerava «un socialista vero».Non aveva paura di scegliere, Ghirelli. E con meticolosa lucidità ha riscritto la nostra storia, a cominciare da quella dei
Democristiani e nel grande vuoto lasciato dalla politica, si deve essere sentito come Ignazio Silone: «Un socialista senza partito e un cristiano senza chiesa». Tra ritagli e frattaglie del mestiere di scrivere, restano appunti di spiritualità di chi ha creduto fino in fondo che il socialismo non fosse altro che «il sentimento della solidarietà». Un inguaribile romantico, Ghirelli, che ha cominciato a spegnersi come una candela dal giorno in cui ha perso il suo più grande amore. Per
Una moglie incantevole (titolo del suo libro, edito da Pironti), Barbara, l’ultimo atto d’amore che un giornalista che come pochi sapeva di sport potesse compiere: smettere di scrivere e andarsene, per sempre, di domenica.