Fuochi d'Arabia: chi paga i conti
martedì 17 settembre 2019

L’impennata di ieri è davvero senza precedenti: 12 dollari di rincaro nei primi secondi di contrattazione, il maggior incremento giornaliero dai tempi della guerra del Golfo, con il Brent del Mare del Nord che scalava la vetta dei 71 dollari al barile. Ma dietro la guerra dei prezzi petrolio c’è un’altra partita, certamente più pericolosa. Ad arroventare i mercati è stata l’incursione sul giacimento di Khurais e il maxi-impianto di Abqaiq della compagnia nazionale saudita Saudi Aramco da parte (a quanto pare) della fazione Houthi dello Yemen, che ha abbattuto e dimezzato la produzione giornaliera di Riad facendo balenare lo spettro di un incontrollabile boom dei prezzi. Di fatto quei 5,7 milioni di barili in meno – pari al 6% della produzione mondiale – rappresentano un record storico negativo: a tanto non si giunse nella Guerra dello Yom Kippur del 1973, né nel 1979 con la caduta dello Scià e la rivoluzione khomeinista e neppure nel 1990 con l’invasione irachena del Kuwait.
In realtà, siamo ben lontani da un vero choc petrolifero: banche, compagnie e analisti stimano un ritorno alla normalità (intesa come il greggio sotto la soglia dei 60 dollari) entro breve periodo, sebbene – secondo alcuni – l’ipotesi di un ritorno ai 100 dollari al barile non sia totalmente da escludere. Anche perché la stessa produzione di shale-oil (petrolio di scisto, prodotto dalla frantumazione di rocce bituminose) americano che ha consentito agli Usa l’autosufficienza energetica e il primato di primo produttore petrolifero mondiale non è sufficiente a garantire all’infinito la "sete" che sta dilagando sui mercati. Di fondo, anche in epoca di vacche magre, resta sempre un’unica grande verità: la domanda di energia aumenta e l’offerta mondiale non basta a colmarla. A pagare il conto più salato per ora è la sola Arabia Saudita, che già negli anni scorsi – forte del suo bassissimo break even, 12,50 dollari per ogni barile estratto – aveva cavalcato una fallimentare campagna ribassista nel tentativo di scoraggiare lo shale-oil americano con i prezzi che nel 2016 erano scesi fino a 30 dollari al barile provocando un deficit pubblico di oltre il 15% del Pil di Riad pari a quasi 100 miliardi di dollari, un tasso di disoccupazione dell’11,5% e la crescita economica della ricca monarchia più che dimezzata, dal 5% a un modesto 2%.
L’altalena delle quotazioni tuttavia non spiega tutto. Perché il petrolio, come ben sappiamo, è ingrediente decisivo ma non certo l’unico nel complicato scenario che abbiamo sotto gli occhi. Attore principale in questa fase è l’Iran. Nel breve volgere di alcuni mesi Teheran ha dimostrato almeno tre cose.
La prima è l’estrema vulnerabilità dell’Arabia Saudita (bastano due droni kamikaze – si vedrà, poi, se partiti davvero dallo Yemen o magari manovrati dall’area sciita in Iraq – per azzopparne teatralmente la produzione). La seconda è la precarietà delle rotte petrolifere del Golfo (si vedano i sequestri e le incursioni dei pasdaran nei confronti del naviglio commerciale). La terza è la capacità interdittiva delle difese iraniane: come ha proclamato il comandante dei Guardiani della rivoluzione Amir Ali Hajizadeh, «Ci siamo sempre preparati per essere pronti a una guerra vera e propria. Tutti dovrebbero sapere che le basi americane e le loro portaerei fino a una distanza di 2.000 km intorno all’Iran sono nel raggio dei nostri missili». Sono queste le pedine che l’Iran strangolata dalle sanzioni internazionali intende spendere nella difficile partita con Washington: sul piatto, oltre al nucleare, ci sono le rotte marittime e le milizie sciite attive in Libano, Iraq, Siria e Yemen e la forte instabilità della regione. Quanto alla guerra (i più allarmati sono i sauditi, i più decisi a colpire per primi – nel caso – sarebbero gli israeliani), nessuno davvero la vuole. Non Washington, non la Russia (che già incassa cospicui dividendi geopolitici grazie al suo appoggio a Teheran e alla Siria) e alla fine nemmeno l’Iran. Non a caso è sul meno cruento risiko petrolifero che si sposta il confronto. Una sorta di guerra a bassa intensità (un paio di droni al massimo), che alla fine sarà come sempre l’Occidente a dover pagare. Italia compresa: già si fanno le stime dei rincari dei beni di prima necessità (benzina, prodotti freschi, trasporti, filiera agroalimentare). E non sono stime rassicuranti.

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