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Fratres omnes: un vocativo gioioso, un richiamo possente come un rintocco di campana pasquale. Il titolo della terza enciclica di papa Francesco, che in extenso suona Fratelli tutti, sulla fraternità e l’amicizia sociale, si rifà direttamente a quello della sesta Admonitio del Povero d’Assisi. Le sue Admonitiones non furono propriamente e direttamente scritte da lui, bensì riferite da ascoltatori in differenti circostanze: e tuttavia correntemente si ritiene ch’esse rispecchiassero profondamente e fedelmente il pensiero del Santo. In questo testo, i “frati minori” vengono invitati a imitare il Buon Pastore, ch’è loro fedele fino al sacrificio della croce.
È bene che sia chiaro a tutti che la fraternità evocata insieme con la libertà e l’eguaglianza nel contesto dell’enciclica è molto lontana dal richiamare il celebre trinomio illuministico divenuto la divisa della Rivoluzione francese. La parola italiana scelta a definire il sentimento che deve unire tutti gli esseri umani è fraternità, simile ma tutt’altro che sinonima di fratellanza. Come ha rilevato l’economista Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, intervistato da “Toscana Oggi” la fratellanza è concetto immanente, che si riferisce al sentimento di solidarietà derivante dall’appartenenza degli esseri umani a una stessa specie; mentre la fraternità è concetto trascendente, che nasce dalla coscienza del riconoscimento della comune paternità di Dio: e è alla luce di essa che la libertà va concepita in senso non individualistico bensì comunitario, indirizzato al Bene comune, e l’eguaglianza non dev’essere intesa come livellamento bensì come diversità e complementarità nel sevizio di ciascuno a tutti gli altri concepiti nel loro insieme come “prossimo”. Il processo di globalizzazione ha reso esplicito e inaggirabile, per il cristiano, questo dovere di reciprocità nell’amore. È per questo motivo che la pagina dedicata a una splendida esegesi della parabola del Buon Samaritano è il centro teologico e concettuale dell’enciclica: che in ciò rivela appunto appieno il suo valore cristocentrico.
La Fratelli tutti si articola in 287 brevi commi, distribuiti in 8 capitoli, a loro volta distinti in 75 paragrafi. Ha, dunque, un’architettura solida e rigorosa al servizio della lezione altissima e intransigente di un documento inesauribile a livello esegetico, autentico punto d’arrivo e al tempo stesso di partenza. Un capolavoro autenticamente tradizionalista tanto nel senso cristiano (commi 277-280) quanto in quello metastorico e universalistico (commi 198-221), ma al tempo stesso profondamente rivoluzionario nel suo nesso esplicito e dichiarato fra l’Amore di Dio per gli uomini, quello di essi per Lui e, alla luce di questo e di quello, fra loro. Amore perfetto il primo, amore perfettibile il secondo, amore da comprovarsi alla luce della storia (e il cammino è ancora lungo) il terzo.
L'enciclica è stata accolta con entusiasmo ma anche con la serietà e la preoccupazione che il suo taglio e il suo contenuto ampiamente e inevitabilmente giustificano. Dopo aver esaminato nella Laudato si’ lo stato del pianeta Terra in rapporto al degrado, all’inquinamento e alla porzione di responsabilità che in tale situazione spettano alla spregiudicata sete di profitto, all’avventata sollecitazione imposta alle risorse e alle ricchezze planetarie dalla speculazione gestita da lobby e consentita da meccanismi di potere – veri e propri “comitati d’affari” – che ormai dominano il mondo (e che, nelle note apposte al testo, il pontefice indica con esplicito coraggio), nella Fratelli tutti si analizza la situazione della famiglia umana cominciando dal bisogno di fraternità tra gli uomini espressa sia nel dialogo tra le religioni, sia in quello fra i credenti e i non-credenti uniti però nell’impegno comune vòlto al benessere del genere umano e alla sua convivenza con la natura e l’ambiente.
Ed emerge subito il carattere positivo, propositivo, concreto dell’enciclica. Nulla ha a che vedere con l’umanitarismo e con il cosmopolitismo moderni; qui si si va ben oltre il limitativo concetto di “tolleranza” nei confronti dell’Altro-da-Sé; qui siamo anzitutto e soprattutto su un piano limpidamente cristico, che concepisce la solidarietà umana come riflesso dell’amore del Padre nei confronti dei figli e di essi fra loro nel Suo nome. Per questo, nel trinomio inscindibile fraternità-libertà-eguaglianza, ben più antico dell’illuminismo (anzi, potremmo definirlo originariamente trinitario) la fraternità è primaria e precedente altri due valori laddove la Rivoluzione francese, declinandoli, anteponeva a essa la libertà e l’eguaglianza. Difatti, tale disposizione della sequenza si è rivelata deleteria: libertà ed eguaglianza, concepite entrambe nel contesto del valore prevalente e preponderante della Modernità, che è l’individualismo, sono di per sé valori intrinsecamente divergenti e concettualmente contraddittori. L’equilibrio tra libertà ed eguaglianza, che solo può moderare le distruttive pulsioni egoistiche in entrambe presenti, è costituito dalla fraternità. Che tuttavia non è a sua volta autosufficiente in quanto non è “autarchica”: cioè non basta a se stessa, se non è sostenuta da un principio per definizione metafisico senza il quale l’essere umano è hobbesianamente homo homini lupus.
Il fondamento della fraternità universale non può essere autonomo: se tale fosse, la mente umana potrebbe respingerlo nel nome della Ragione o dell’Arbitrio, cioè della Volontà di Potenza. Ma interviene l’Amore, come Suprema Legge: e di essa Dio è garante per mezzo della Sua Grazia, come papa Bergoglio sottolinea col supporto di Tommaso d’Aquino (capitolo III, comma 93). A comprovare questo carattere della Fratelli tutti bastino i due commi 103-105: in particolare l’inizio del 105, «L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità ». È qui centrale il concetto di Bene comune, che insieme con quello della funzione sociale della proprietà e dell’uso comune dei beni creati (commi 118-120) Tommaso d’Aquino desume sì da Aristotele, ma alla luce innovatrice e vivificante del Vangelo: «La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio» (comma 110).
È singolare che da parte di taluni, attaccando specialmente le parti del documento dedicate alla libertà (e alla proprietà privata), si sia gridato allo scandalo senza nemmeno rendersi conto che i medesimi concetti, rigorosamente ispirati a Tommaso d’Aquino, erano già presenti nella Dottrina sociale della Chiesa fin dalla Rerum novarum di Leone XIII. Ma con ogni evidenza, rispetto a quel che Jacques Maritain aveva a suo tempo definito «l’inginocchiarsi della Chiesa dinanzi al mondo», la direzione intrapresa da papa Bergoglio è totalmente opposta. Il pensiero unico dell’ideologia mercatista, che pretenderebbe addirittura di sostituire le «libere leggi (sic) del mercato» alla funzione equilibratrice del potere pubblico, si radica nel primato dell’individualismo e del binomio economia-finanza sulla società europea a partire dal XVI secolo e nella sostituzione dell’economia-mondo al precedente sistema “a compartimenti stagni” di culture che poco o nulla comunicavano tra loro. Ciò ha determinato l’avanzata dell’oppressione e dello sfruttamento colonialistici, alla quale ha corrisposto in Europa il processo di secolarizzazione e scristianizzazione.
Ciò distingue papa Francesco dal suo modello ispiratore, il Povero d’Assisi. Frate Francesco viveva in un mondo duro e crudele, ch’era però pur sempre una società cristiana e poteva legittimamente praticare la sua via, quella che con commovente lucidità propone nel suo “Testamento”: senza tuttavia pretendere – Francesco non era Lenin – che tutta la società si adattasse al suo sacrum commercium cum domina Paupertate. Oggi il Papa ci ricorda che la via per rimanere cristiani, se si vuol fare tale scelta, è quella, appunto, della fraternità tra le persone, le comunità e i popoli, nel rispetto delle diversità – che non annullano l’eguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio, ma al contrario la qualificano (e si veda nell’enciclica il paragrafo dedicato alla “Identità cristiana”, stranamente “ignorato” dai critici identitaristi e sovranisti del documento) – e nel ritorno a una vita cristiana che sia tale anche dal punto di vista sacramentale.
Ci voleva un Papa gesuita, e un Papa latino- americano, per affermare tutto ciò con coraggio e lucidità. E risiede qui una delle ragioni per la quale i capitalisti europei del XVIII secolo chiesero – e ohimè ottennero – che i regnanti insistessero presso la Santa Sede affinché fosse sciolta la Compagnia di Gesù, che nelle sue reducciones del Guarany (tra Argentina, Uruguay e Paraguay attuali) istruivano e inquadravano gli indios e li armavano per insegnar loro a opporsi alle incursioni dei cacciatori di schiavi, i paulistas. Jorge Mario Bergoglio, il vescovo dalle scarpe vecchie e pesanti che anni ha vissuto nelle Villas Miserias argentine, è uno fatto di quella pasta.
Un’enciclica “politica”? Senza dubbio. Ma di quella politica che – come replicava nel 1931 Pio XI a chi da parte fascista lo accusava di “politicantismo” – è legittimamente tale perché «tocca l’altare». E il malessere di milioni di persone, la mancanza di casa e di lavoro, la migrazione coatta di chi si vede sottratti in patria i mezzi di sussistenza, la fame e la ma-lattia incurabili in quanto non si hanno i mezzi economici per farlo, richiedono misure politiche che obiettivamente, inevitabilmente «toccano l’altare». Rinfacciare al Papa di aver edito un documento “ideologico” in quanto egli espone sacrosanti rilievi nei confronti di liberismo, populismo e sovranismo equivale a contestare Pio XI per aver attaccato con la Mit brennender Sorge la “statolatria pagana” nazionalsocialista o con la Divini Redemptoris il comunismo ateo.