sabato 8 settembre 2012
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«Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Nei giorni che seguono la scomparsa del cardinale Martini, le perentorie parole della settima e ultima proposizione, l’unica priva di commento, del Tractatus del grande filosofo laico Ludwig Wittgenstein (durante la seconda guerra mondiale si avvicinò al mondo della medicina lavorando in un ospedale di Londra), suonano come un severo monito. Il nostro linguaggio è autorizzato a dare parola ai pensieri, ai fremiti del cuore, agli stati d’animo, alle ultime mosse della libertà di un uomo quando vede avvicinarsi la morte e dischiudersi l’orizzonte dell’eternità? Può qualcuno sostituirsi a lui nella testimonianza del vertice della drammaticità dell’esistenza, quando libertà e verità intera della nostra vita si sfidano e si abbracciano? L’unica testimonianza credibile di chi non è più visibilmente tra noi sono i suoi gesti e le sue parole, incisi nella realtà granitica della vita e delle opere. Il resto è puro flatus vocis. Anche se trova facile (e talora distorta) eco mediatica laddove ogni "pre-testo" e "con-testo" è utilizzato per alimentare consenso verso questa o quella tesi. Stiamo, dunque, ai fatti. Anzitutto, la rinuncia di un malato, che riconosce di essere giunto al termine della sua vita, al cosiddetto «accanimento terapeutico» (cure sproporzionate rispetto all’esito atteso, clinicamente non appropriate e troppo fisicamente o psicologicamente onerose per il paziente) non implica il rifiuto di altre cure, in particolare la terapia del dolore, che può richiedere anche la sedazione farmacologica profonda. La richiesta di alleviare il proprio dolore non è solo lecita, ma anche generalmente auspicabile (chi non desidererebbe questo per sé stesso?), e il medico è chiamato a rispondere a questa domanda con i mezzi più efficaci e sicuri di cui dispone. Anche se ciò comportasse indirettamente (principio del duplice effetto) un’abbreviazione delle ultime fasi della vita. La questione venne sciolta già da Pio XII nel 1957. La realtà della pratica clinica ci documenta che questo uso proporzionato dell’analgesia e anestesia nulla ha a che vedere con la somministrazione intenzionale degli stessi farmaci per uno scopo diverso, medicalmente e moralmente: anticipare la morte (non ancora in corso) su richiesta del malato o di altra persona per effetto delle dosi letali degli stessi farmaci o per concomitante interruzione di supporti vitali essenziali (ventilazione, nutrizione o altro). La si chiami "eutanasia" oppure no (come alcuni vorrebbero), questo gesto inammissibile non può essere equiparato, nei fatti e nella volontà deliberata, con la sedazione del dolore, anche quando essa comporta come effetto collaterale la perdita discontinua o persistente della coscienza. La pratica e la disponibilità, per ogni cittadino che ne abbia necessità e le chieda, di adeguate cure dette "palliative" – che comprendono interventi per alleviare il dolore – è un segno di doverosa attenzione della società verso i malati gravi e i morenti e di qualità umana della medicina. Queste cure non possono mancare in un sistema sanitario moderno e attento alla persona, e ci auguriamo che i tagli al bilancio per la salute non incidano sulla disponibilità della palliazione. Cure che non possono essere considerate il privilegio di pochi, ma il diritto di tutti. Qualcuno ha invocato, in occasione della divulgazione di alcune notizie circa le ultime cure praticate al cardinale Martini su sua richiesta, la necessità di una legge che stabilisca il diritto di ogni malato a una sedazione del dolore che accompagna le fasi terminali di alcune malattie. Se la buona pratica clinica e la deontologia medica (e, anzitutto, lo sguardo umano di moltissimi medici) non sono giudicati sufficienti, vi è strada al ricorso alle norme. Ma non serve un nuovo testo: è sufficiente dare piena attuazione operativa alla legge 38 del 2010 sulle disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore. Unitamente a quanto previsto dal disegno di legge sulle Direttive anticipate di trattamento (Dat), già approvato in prima lettura dai due rami del Parlamento e ora in attesa dell’ultimo voto al Senato, si creerebbero le condizioni giuridiche per separare di principio e di norma la terapia del dolore dal procurar(si) la morte anticipatamente, evitando, attraverso il patto di alleanza terapeutica, sia il paternalismo medico che l’autodeterminazione assoluta. Consegniamo alla carità (o alla laica pietà) del silenzio le ragioni della vita e della morte unica, irripetibile, di un uomo e di tutti gli uomini, e se qualche insegnamento dobbiamo trarre dalla vita e dalla morte, sia anch’esso singolare, personalissimo.
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