Caro Avvenire,
l’anno scolastico è terminato anche qui, nel carcere di Cuneo, con momenti importanti: conclusione delle lezioni, consegna dei diplomi, incontri vari, torneo di calcetto… e, ultimo in ordine di tempo, uno spettacolo di canto e musica preparato a lungo e presentato da un gruppetto di volontari. Bello, importante, realizzato da una dozzina di detenuti impegnati e bravi. Penso che questo spettacolo, come gli altri eventi, si potrebbe intitolare 'Non lasciatevi rubare la speranza', proprio come ha detto papa Francesco. O, forse, 'Lasciateci sognare'. O ancora 'Volare alto'. Sì, anche in carcere, dopo errori e momenti difficili, si può cambiare, camminare e volare. Volare alto. Da 28 anni vado in carcere… e comprendo sempre più il valore dei corsi, di vario tipo, della scuola, di incontri, scambi. A. e G.F. mi hanno parlato della consegna degli attestati di qualifica del 3° anno di Scuola Alberghiera- Sezione del Carcere 'Ist.V. Donadio' di Dronero e degli alunni della Scuola edile. Presenti direttore, prèsidi, educatori, alcune autorità e l’assessore regionale all’Istruzione signora Pentenero, oltre che il direttore della Scuola Edile. Quei due detenuti della Scuola Alberghiera, e non sono gli unici, hanno avuto il punteggio 100/100 e hanno anche pubblicato una ricetta su una rivista di cucina. Segno della seria preparazione. Sono stati premiati con una borsa di studio. Certo in carcere ci sono situazioni difficili, persone con limiti diversi, come già diceva anni fa il procuratore Caselli: l’80% dei detenuti proviene dall’area del disagio sociale, ambientale, familiare, psicologico, sociale. In cella, cioè, ci sono tantissimi 'poveracci'. Ma proprio persone così svantaggiate serbano ricchezze sconosciute. Basta tirarle fuori, dare coraggio, fare proposte, indicare un cammino... Brava S., bravi i suoi collaboratori, bravi tutti coloro che organizzano tornei, corsi e concorsi. Davvero ci vuole la 'passione' dell’uomo, del fratello che può rinascere, rifiorire, rialzarsi, camminare e volare. Volare alto.
suor Elsa Caterina Galfrè
Pochi giorni fa ho incontrato una ragazza che è stata recentemente un mese in carcere, in attesa di giudizio. Mi ha parlato della quotidianità della vita dietro le sbarre, delle tante cose apparentemente piccole che pesano, alla fine, quasi quanto la privazione della libertà. Mi ha raccontato di come è vivere in tre in otto metri quadrati, e come il russare di una compagna di cella comporti interminabili notti senza sonno. Allora vai a domandare dei tappi per le orecchie, ma non è così semplice, bisogna fare una 'domanda' in infermeria. Per ogni piccola cosa bisogna fare una 'domanda'. Il carcere è anche una ragnatela di minima, farraginosa burocrazia. La mia amica mi ha detto dell’ora d’aria in un cortile di cemento, e di quanto sia importante che da casa ti portino la carta igienica, perché il rotolo previsto dal regolamento per la settimana non basta. Mi ha detto di come è strano e alienante sentirsi dare del 'tu' dai secondini, mentre fra le tue compagne ce ne sono di quelle che hanno davanti trent’anni da scontare, e tu stessa non hai la minima idea di quando uscirai. Mi ha raccontato, ancora, di come il tempo in carcere sembri non passare mai, inchiodato a una inesorabile lentezza. Eppure, in cella si trova anche umanità e solidarietà, mi ha detto: quando le hanno annunciato che usciva, le compagne hanno fatto festa – e lei le guardava sbalordita, sapendo che per loro la libertà era così lontana. Di questa umanità, di questo serbatoio nascosto di bene e di forza parla la lettera di suor Elsa Caterina, antica amica di Avvenire, da 28 anni nelle carceri: in cella, dice, ci sono tantissimi «poveracci», ma proprio queste persone serbano ricchezze sconosciute. È questo che risulta così difficile da comprendere per tanti che in carcere non sono mai stati, per quelli che si ritengono immacolati e perfetti, e sul web alzano la voce e insultano, non appena si delinea la figura di un nuovo colpevole. 'Che marcisca in galera', si augurano, con una spietatezza che fa male anche a chi legge, tale è l’annientamento di speranza che vi si scorge. Invece, la lettera di questa suora è colma di speranza. Lei sa, lei ha visto, in tanti anni, che la speranza può vivere anche in prigione. «Si può cambiare, si può camminare», afferma. Si può perfino, dice, volare. Bisogna tirarle fuori quelle risorse nascoste in uomini e donne, che magari dalla vita hanno avuto poco davvero. Bisogna dare coraggio, proporre, osare. È una inesausta fede nell’uomo che si avverte in queste righe da Cuneo, una fede cocciuta e gioiosa. Una passione per l’uomo – che è sempre capace di risorgere dal buio in cui è caduto. Per l’uomo, che è volto di Cristo, anche e tanto più quando è umiliato, recluso, solo. La bellezza splendente dello sguardo cristiano colma le parole di questa suora, nella breve e densa lettera da un carcere italiano.