Famiglia, ripartire dall’assegno unico
mercoledì 10 febbraio 2021

Le difficoltà che hanno accompagnato la lenta agonia del governo Conte, fino alla sua caduta, hanno reso più incerto il cammino di una riforma importante a un passo dalla sua realizzazione: parliamo dell’assegno unico e universale per i figli a carico, il cui pagamento è previsto dal prossimo mese di luglio e per il quale la Legge di Bilancio ha già stanziato 3 miliardi (più 5,5 per il 2022). Che fine farà ora l’assegno? E che percorso seguirà il Family Act, la riforma curata dall’ex ministra Bonetti che aveva messo in campo un ventaglio ampio di misure per la famiglia?

Sono domande legittime, perché nell’attuale arduo passaggio è in gioco molto del futuro dell’Italia, colpita da una crisi demografica tra le più violente al mondo, e in difficoltà nel proporsi come terra ospitale per i giovani e le famiglie che vogliono continuare a credere e investire nel futuro. Le premesse per una ripartenza positiva del percorso con un governo guidato da Mario Draghi ci sono.

L’approvazione all’unanimità alla Camera ha tolto ogni colore all’assegno unico e universale, diventato patrimonio comune delle forze politiche: un’adesione trasversale che ricalca il largo consenso di cui sta beneficiando la formazione del nuovo governo. Il problema è che alla delega mancano ancora il via libera del Senato, i decreti legislativi col passaggio nelle Commissioni, e poi i decreti attuativi.

C’è da correre, insomma, al netto delle giravolte di cui è capace la politica, se si vuole portare a casa il risultato. L’assegno unico e universale, che nelle ambizioni dovrebbe arrivare a trasferire alle famiglie una cifra almeno attorno ai 250 euro mensili a figlio (nella realtà, a causa delle limitate risorse stanziate, gli importi saranno più bassi e non omogenei), è una delle risposte possibili alla crisi delle nascite: l’obiettivo è mettere l’Italia al passo con i Paesi più attrezzati in tema di politiche familiari, ma anche correggere la distorsione che ci fa una delle nazioni occidentali in cui alla nascita di un figlio il reddito disponibile dei genitori si abbassa più nettamente e la povertà aumenta più velocemente.

Il vizio all’origine è che in Italia le misure 'per la famiglia' sono state storicamente concepite in modo da perseguire obiettivi diversi dalla natalità – pur se comunque necessarie e utili alla 'causa' – confuse ad esempio con le politiche per contrastare la povertà o per la parità di genere. Un travisamento cui si sta ponendo rimedio, ma che per lungo tempo ha reso incerto lo sguardo sulla famiglia e poco efficaci gli interventi di contrasto alla crisi demografica. L’augurio è che non si torni indietro. Pensiamo solo all’effetto economico che questo declino può produrre.

È noto a tutti che il crollo delle nascite avrà ricadute negative in fatto di tenuta dello Stato sociale, oltre che di capacità di ripagare il debito pubblico e assicurare una crescita apprezzabile. In una recente ricerca di Bankitalia si calcola che il calo demografico può costare circa il 25% di Pil in 45 anni. Ecco, da un punto di vista tecnico la formula per la soluzione non è difficile: aumentare la produttività, alzare l’età pensionabile, favorire (governandola) l’immigrazione. Pensare di aiutare i giovani a realizzare le proprie aspirazioni di vita, assecondando i desideri genitorialità, richiede invece uno sguardo diverso.

Allo stesso modo, parlando di figli e di tassi di fecondità, la prospettiva va ampliata a ciò che ovunque nei Paesi sviluppati si è rivelato efficace: servizi alle famiglie, politiche per armonizzare i tempi di vita e di lavoro, potenziamento delle strutture educative... Quello che andrebbe tenuto presente, tuttavia, è che nei Paesi in cui queste misure sono ampie e diffuse, il punto fermo di partenza è un assegno mensile versato per ogni figlio (nella tanto citata Germania è di oltre 220 euro al mese), unito a un sistema fiscale che agevola generosamente tutte le famiglie rispetto ai single.

Tralasciare questo aspetto, spostando l’attenzione su interventi più articolati, rischia di essere solo un esercizio di benaltrismo. L’effetto combinato della crisi finanziaria del 2008 e della crisi sanitaria del 2020-21 ha prodotto un’emergenza in carico a una generazione che richiede un rapido aggiornamento delle priorità. Un tempo così prolungato di insicurezza, appiattimento degli orizzonti, sfiducia nella possibilità di far coincidere le aspirazioni con la realtà, ha già decretato a livello planetario un ridimensionamento colossale delle prospettive demografiche, intese come figli che non nasceranno, tale da preannunciare una vera emergenza umana.

Farsi carico di tutto questo richiede o una figura politica capace di competenza tecnica, o un tecnico con una competenza non parziale. Per imprimere una svolta a uno scenario di declino non basteranno qualche euro in più al mese per figlio, un paio di posti in più al nido, qualche giorno di congedo parentale aggiuntivo. Servono case accessibili, nidi e materne gratuiti compresi i pasti, più lavoro e più lavoro femminile, scuole e università di livello e alla portata di tutti, servizi per i giovani e le famiglie, una fiscalità capace di annullare il costo per mantenere i figli, a partire da quel primo mattone che è l’assegno unico e universale. È questo il 'piano Marshall' di cui si sente la mancanza. Perché se le parole hanno ancora un senso, dire 'Piano nazionale di ripresa e resilienza' e 'Next Generation' dovrebbe invitare a partire proprio da quella cellula che da sempre definisce il futuro e la tenuta di ogni società




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