venerdì 31 maggio 2024
Discendente della dinastia di armatori che ha segnato la storia della città ligure con le sue navi da crociera, l’imprenditore racconta l’impegno del Ceis. Nel segno di mamma Bianca
Enrico Costa, classe 1953, nella sede del Ceis di Genova di cui è presidente

Enrico Costa, classe 1953, nella sede del Ceis di Genova di cui è presidente - Simone Margiotta

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C’è una Genova buona, inghiottita da questi giorni di scandali innescati dall’inchiesta sulla politica e la corruzione. E quel buono racconta la storia d’una città che davanti ai ponti caduti e ricostruiti, agli scolmatori e alla nuova diga, ha sempre messo le persone più fragili: i poveri, i tossicodipendenti, i malati di Aids, i minori stranieri soli. Protagonista ne è la famiglia che della città è anche il sinonimo, i Costa, col suo erede forse meno conosciuto, almeno lontano dalla Lanterna: si chiama Enrico ed è il presidente del Ceis di Genova, il colosso della solidarietà che conta ormai su nove comunità d’accoglienza e di primo intervento in tutta la Liguria e ogni anno prende per mano oltre 5mila persone di ogni età e provenienza, soprattutto ragazzi, salvando loro la vita. Non abbastanza per finire sui giornali come il suo (affezionatissimo) fratello minore, quel Giuseppe che invece ha portato avanti l’impero economico della famiglia creando la Costa Edutainment Spa, il gruppo in cui l’azienda è confluita dopo la cessione della flotta delle celebri navi da crociera all’americana Carnival nel 1997 e che oggi è leader incontrastato nella gestione delle grandi strutture dedicate alle attività ricreative e culturali del Paese, dall’Acquario di Genova a quello di Livorno e di Rimini fino all’Aquafan e all’Italia in miniatura. Enrico s’è anche lui dedicato agli studi economici per poi entrare brevemente nell’azienda di famiglia e distaccarsi imboccando la strada delle spedizioni marittime. Finché a stravolgere la sua vita di imprenditore ha pensato mamma Bianca Bozzo, fondatrice del Ceis di Genova. «La sua creatura nasceva nel 1974, esattamente cinquant’anni fa, e da allora niente è stato più lo stesso».

Cominciamo dall’inizio, dall’infanzia e dall’adolescenza. Cosa ha significato essere un Costa?

Ha avuto un peso decisivo, ovviamente. La nostra famiglia per decenni è stata tutt’uno col tessuto economico di Genova, passando dalla produzione dell’olio al tessile fino al settore armatoriale e alla creazione di Costa Crociere, ma anche con quello sociale: papà Federico, che dell’azienda era presidente della finanziaria, sosteneva mamma nella solidarietà e nell’aiuto ai poveri e agli emarginati, sempre in dialogo con la Chiesa genovese. Erano entrambi profondamente devoti e ci hanno cresciuti – me, i miei due fratelli e mia sorella – nella fede, nell’attenzione agli altri, nella filantropia. Il mio destino era ovviamente entrare in azienda, mi preparavo per questo. Ma da quell’impegno, dalle attività di mia madre in particolare, mi tenevo alla larga: ero preso dalla mia attività professionale, sempre in viaggio per lavoro. Per qualche anno il mio lavoro aveva base a Milano e poi in Inghilterra.

Quando sono cambiate le cose?

Prima di tutto sono cambiate per mamma. Lei era in prima linea da anni ormai come volontaria di Auxilium Caritas e di Unitalsi quando, agli inizi degli anni Settanta, si trovò a seguire il caso di una ragazza incinta, tossicodipendente. Nessuno voleva prendersi cura di lei, né sapeva come farlo. All’epoca d’altronde non esistevano Serd e comunità, chi si drogava o finiva in carcere e veniva bollato come un delinquente, oppure veniva ricoverato in Psichiatria e anche in questo caso marchiato come malato di mente: non c’era una terza via, non c’era un modo di aiutare quella ragazza. Per mia madre quello fu l’interruttore: decise di accendere la luce. Aveva sentito parlare d’un percorso possibile che si stava affermando in America, si chiamava Progetto Uomo: la droga per la prima volta veniva interpretata come il sintomo di un malessere profondo, di tipo esistenziale ed educativo. Ne aveva parlato con don Mario Picchi, che nel 1969 aveva fondato il Ceis a Roma, e col suo supporto nel 1974 decise di fondare il Ceis di Genova. All’inizio si trattava d’un ufficio messo a disposizione dal Comune di Genova in via San Bartolomeo degli Armeni, una porta semplicemente, a cui le persone con dipendenze potevano bussare. A mamma non bastava: cominciò a ospitare ragazze e ragazzi nella nostra casa in riviera, a Santa Margherita. Poi la diocesi iniziò a darle alcuni spazi, nacquero le prime comunità.

E poi mamma Bianca chiamò lei…

Sì. Mamma aveva puntato molto su mia sorella Nicoletta, ma lei non si sentiva di affrontare un impegno così grande. Alla fine degli anni Novanta mi chiese aiuto per i conti: voleva che seguissi alcune riunioni, che mi occupassi dell’aspetto economico e gestionale del Ceis. Lo feci per 8 anni, più per accontentarla e alleggerirla che per una spinta del cuore. Soprattutto quando cominciò a star male. Non voleva saperne di fermarsi: la ricordo ancora in ospedale, gli ultimi tempi, a firmare documenti. Quando il cardinal Bagnasco, all’epoca arcivescovo di Genova, andò al suo capezzale e le chiese come stava, lei gli rispose con un filo di voce: «Andiamo avanti». Andava avanti verso il Cielo, pensai io, e in Paradiso è senz’altro direttamente andata nel 2006, quando il cancro ce l’ha portata via. Quello fu il momento di decidere per me.

Cosa accadde?

Nel frattempo avevo accettato la nomina di vicepresidente, sempre perché capivo che mamma non poteva fare più tutto da sola. La sua morte fermò tutto: di punto in bianco gli operatori e i collaboratori del Ceis avevano paura, credevano che tutto sarebbe finito. Ricordo i loro volti nel corso della prima riunione, lo smarrimento. Capii che tutto quello per cui mia mamma era vissuta, tutto il suo impegno, rischiava di naufragare se non avessi preso io in mano il timone della nave. E lo presi. Nonostante la mia attività, nonostante gli avvocati di famiglia sconsigliassero che chi gestiva la fondazione economicamente si occupasse anche delle cooperative, nonostante le perplessità persino di mio fratello Beppe. Ma con il fermo sostegno di mia moglie Federica. Assunsi la presidenza di tutto e cominciò un nuovo corso.

In che senso?

Eravamo arrivati da tempo a un punto di frattura col mondo delle istituzioni. Gli ospedali e il Serd ci consideravano una specie di parcheggio, dove piazzare le persone. Andava costruita un’intesa. Soprattutto, al nostro interno, andava costruita una competenza altissima dal punto di vista professionale: nelle comunità dovevano essere presenti figure di riferimento preparate, psichiatri, psicologi, educatori, Oss, infermieri, assistenti sociali. E, dopo la morte di mamma, serviva fiducia. Incominciai a incontrare gli operatori e a girare le comunità. Ma nelle comunità incontravo anche i ragazzi, le loro ferite, iniziavo a conoscere l’abisso di solitudine e disperazione che porta alla dipendenza, al disagio, alla delinquenza. Non era un mondo a me familiare, quello, io ero sempre stato solo un uomo di impresa. Per capire quello che avevo davanti agli occhi, per entrare nella missione che era stata di mia madre, iniziai a chiedermi: come guarderebbe lei questo ragazzo? Cosa vedrebbe in lui? Cosa gli direbbe? E poi, cosa farebbe?


Serve guardare le persone.
Chi soffre, chi si droga, chi è straniero va guardato.
La cosa più preziosa che l’imprenditoria
può offrire alla solidarietà non è il denaro, ma il tempo

Si direbbe che ha funzionato: nelle comunità del Ceis ogni ospite la conosce e la chiama per nome.

E io conosco loro. Serve questo passo verso di loro, serve questo sguardo di madre mai giudicante per cambiarli. Io ho imparato ad essere madre, ad accogliere prima di tutto.

Come ha visto cambiare il mondo delle dipendenze e della fragilità nel corso degli anni?

Dagli anni dell’impegno, della reazione positiva innanzi ai problemi dei più giovani si è passati alla resa più o meno generalizzata: questo è cambiato e questo mi rammarica. Quando si parla di droga sento sempre più spesso insistere sulla riduzione del danno, sulle stanze del buco, sulla legalizzazione: questi sono stati gli unici contenuti della Conferenza nazionale che s’è svolta proprio a Genova, ormai nel 2021. Se queste sono le uniche soluzioni che pensiamo di mettere in campo, vuol dire che abbiamo fallito. Il problema è educativo e non vuole affrontarlo nessuno.

La sua attività imprenditoriale nel frattempo è continuata. Quanto è contato avere denaro, essere un Costa, per mandare avanti la grande macchina di solidarietà del Ceis?

Sono convinto che la cosa più preziosa che l’imprenditoria può offrire alla solidarietà non è affatto il denaro, ma il tempo. I soldi possono far partire progetti straordinari, ma non bastano. Serve il tempo per le relazioni, l’impegno personale, il mettere in moto contatti, l’essere presenti nel tessuto urbano. Essere nato in una famiglia che da sempre coltiva queste relazioni con il mondo del lavoro, con quello della politica e con la Chiesa è stato chiaramente decisivo: abbiamo la capacità di cambiare la vita delle persone che aiutiamo offrendo loro percorsi lavorativi, abbiamo voce e peso quando ci confrontiamo con le istituzioni, abbiamo l’aiuto fondamentale della diocesi, che da sempre ci supporta mettendoci a disposizione le sue strutture. Ma il tempo va trovato sempre, queste relazioni vanno coltivate.

In occasione dei festeggiamenti per i cinquant’anni del Ceis, qualche giorno fa, lei si è rivolto proprio al mondo dell’imprenditoria genovese…

Sì, sentivo il bisogno di una scossa, di ribadire che la solidarietà che noi facciamo ha bisogno della partecipazione di tutti. La risposta è stata straordinaria: abbiamo avuto molti riscontri, a cominciare dalla Compagnia del porto, da Confindustria e dagli amici di Ucid Liguria, di cui da qualche mese sono presidente. Genova non ha solo bisogno delle infrastrutture di cui tanto si parla, le persone devono tornare al centro.

Cos’è per lei Genova?

È la mia culla, sarà la mia tomba. Vorrei lasciare questo mondo con la certezza d’averle dato qualcosa. Ma è anche una città perbene, di cui nel mondo s’è sempre parlato bene: aperta al mondo come il suo porto, solidale, legata indissolubilmente ai suoi figli anche quelli nati altrove, anche se sempre più anziana.

Lei, di figli, ne ha due.

Uno naturale e uno adottivo, sì, di 26 e 25 anni. Lui è arrivato in famiglia nell’ambito di un progetto di accoglienza temporanea pensato per i bambini bielorussi di Chernobyl nel 2005. Lo abbiamo adottato quando è diventato maggiorenne, un momento bellissimo. I figli oggi hanno preso la loro strada, nel poco tempo libero che ho mi dedico per lo più alla bicicletta, l’altra grande passione della mia vita.

Mamma Bianca sarebbe fiera di lei?

È la domanda che le faccio tutti i giorni. Non ricevo risposta, ma sento nitidamente il suo fiato sul collo. E non mi fermo. Serve guardare le persone. Chi soffre, chi si droga, chi è straniero va guardato. La cosa più preziosa che l’imprenditoria può offrire alla solidarietà non è il denaro, ma il tempo Enrico Costa, classe 1953, nella sede del Ceis di Genova di cui è presidente

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