Abbiamo perso tutti, come società»: sono le prime parole di Gino Cecchettin dopo il verdetto che ieri la Corte d’Assise di Venezia ha pronunciato nei confronti di Filippo Turetta. Ergastolo. Escluse le aggravanti della crudeltà e dello stalking, e su questo punto si sono già aperte accese discussioni. «È stata fatta giustizia - ha aggiunto il padre di Giulia, uccisa a 22 anni - ma dovremmo fare di più come esseri umani. La violenza di genere va combattuta con la prevenzione». Questa dunque è la strada per non perdere ancora, non perdere di più, non perdere sempre: punire severamente chi commette femminicidio, come è stato nei processi per la morte di Giulia Cecchettin e di Giulia Tramontano. E insieme prevenire, educando a un amore vero perché libero, responsabile, reciproco. Ma occorre anche fermare il brodo di coltura di cui si alimenta la violenza, e cioè quel sommerso di abusi che fortunatamente non sfociano nel femminicidio ma sono diffusi a tal punto che in Europa una donna su tre dichiara di esserne stata vittima almeno una volta nella vita. Per non «perdere più, come società» bisogna ascoltare le voci che si alzano sempre più forti, quasi a dire: «Basta, voglio essere l’ultima». Le abbiamo sentite in questi giorni: prima una consigliera regionale veneta, poi una giovane collega al Comune di Genova, infine sabato sei delegate su 12 a un tavolo tematico all’assemblea nazionale di Noi moderati. Tutte hanno alzato le mani e dichiarato: «Anch’io». Ha le sembianze di un nuovo #MeToo quello che sta investendo l’Italia nelle ultime settimane, a ridosso della Giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne del 25 novembre, durante la quale tante volte si è evocato il nome di Giulia. Donne che hanno un ruolo pubblico hanno dichiarato a voce alta che sì, anche loro hanno subìto violenze sessuali o molestie gravi nella loro vita, e che vorrebbero essere le ultime. Alcune quando erano poco più che bambine: la ligure Francesca Ghio aveva 12 anni, la veneta Silvia Cestaro 15. La prima ha spiegato che la decisione di rendere pubblico il suo stupro è stata improvvisa, un impeto di liberazione da quell’affronto, da quel reato che ora la Procura ha deciso di mettere sotto la lente. «Il mio corpo è politico, è bandiera, la mia voce in quanto consigliera comunale è la voce di chi non ha la visibilità e la possibilità di parlare», ha spiegato Ghio.
Come ha dichiarato Antonella Veltri, presidente di D.i.Re., Donne in rete contro la violenza, «lo spazio pubblico può essere strumento di cambiamento». Meglio ancora: “deve” essere strumento di cambiamento. In effetti coloro che trovano canali pubblici possono essere di incoraggiamento anche per le altre, ben più numerose, che ugualmente della loro storia di abusi vogliono liberarsi, e cercano canali per raccontare. Anche noi di Avvenire, dopo le due pagine di testimonianze di molestie e abusi “quotidiani” pubblicate domenica 24 novembre, alla vigilia della Giornata, abbiamo raccolto nuove voci, nuove confessioni, nuove storie. «Parlare è un po’ guarire», ci ha detto una trentenne che ha subìto una molestia in uno studio medico. Forse è presto per dirlo, ma anche nel nome di Giulia è nata una piccola onda che cresce giorno dopo giorno e increspa la superficie di un lago. Una recente ricerca dell’Università Bocconi sull’impatto avuto dal movimento #MeToo in diverse città americane mostra che dal 2017 in avanti sono diminuiti i crimini sessuali ma sono più che raddoppiate le denunce tardive (ref. Germain Gauthier, aprile 2024). Segno di un cambiamento generato proprio dalla parola che libera. Parallelamente, è necessario che termini anche il tempo della vergogna. Una grande spinta a superare questo sentimento, comprensibile ma paralizzante e ingiusto, è arrivata dalla Francia, da una donna di 72 anni che ha affrontato a viso aperto un processo aspro. Per anni Gisèle Pelicot è stata drogata dal marito, che ha autorizzato decine di uomini ad abusare di lei, incosciente. La signora Pelicot ha rinunciato al suo diritto alla privacy e chiesto che il processo al marito e ai 50 imputati fosse celebrato a porte aperte, pubblicamente. Che tutti possano conoscere i fatti, ascoltare i discorsi dell’accusa e della difesa, guardare l’impudicizia negli occhi degli imputati, ma soprattutto osservare il suo volto di donna atrocemente abusata ma libera. Ha voluto che la «vergogna cambiasse lato», perché, ripete a ogni intervista, «non sono io a dovermi vergognare, ma loro». «Gisèle, le donne ti ringraziano», c’è scritto a caratteri cubitali su un muro vicino al Tribunale di Avignone.
Il tempo del silenzio e della vergogna, dunque, è finito. Non tutto ciò che le donne stanno raccontando finirà in un’aula di tribunale, perché sono trascorsi troppi anni o perché gli abusatori sono morti, o perché in alcuni casi la molestia non è riconducibile a un reato codificato dalla legge. Ma è importante riconoscere che quel tipo di violenza pervasiva, distruttiva per le tante, tantissime, che la subiscono ma degradante solo per chi la commette, può essere sconfitta riconoscendone la portata, dandole un nome per condividere con gli uomini la buona battaglia. Come avevamo già scritto in occasione del 25 novembre, non facendo finta che sia “normale”. Non lo è affatto: è dunque tempo di parlare e di non vergognarsi delle parole. Solo così non perderemo ancora, tutti.