Negli ultimi anni, nell’ambito delle iniziative culturali dell’Accademia dei Lincei, mi sono occupato di educazione scolastica e per questo mi sono trovato spesso a discutere dei giovani e della scuola sia con politici che con industriali ed economisti. Spesso ho ascoltato da bocche, per dir così autorevoli, critiche risentite sui ragazzi dei giorni nostri, compresi figli e nipoti, che non avrebbero i valori delle precedenti generazioni, quali l’impegno nello studio, nel lavoro e nei doveri sociali o familiari. Viene loro rimproverato di adagiarsi sulle risorse dei genitori o di altri parenti per risolvere problemi, per trovare una buona occupazione, una posizione sociale, perfino quelle che implicherebbero studi approfonditi. Discussioni che riguardano figli di famiglie benestanti; è noto che per i più poveri la situazione è ben peggiore per non dire tragica.
Le statistiche ci indicano che i ragazzi tra i 13-15 anni, ma in molti casi anche prima, abbandonano la scuola: il fenomeno, in certe aree meridionali, raggiunge il 40% ma, in percentuali minori, è presente ovunque. Sappiamo che il destino di questi giovani è segnato perché, in particolari contesti, le porte della malavita, delle organizzazioni mafiose, della droga, sono aperte e accoglienti.
In generale, sono aumentati i suicidi, le autolesioni, le patologie depressive, i giovani Neet (non impegnati in percorsi di studio, lavoro, o formazione), i giovani Hikikomori che si confinano nella propria camera, e non comunicano neppure con i familiari: questi ultimi, numerosissimi in Giappone, sono già più di centomila anche in Italia: comunicano particolarmente di notte, magari con Paesi lontani, rinunciando ai contatti sociali, lasciando la scuola e perdendo interesse all’ambiente fuori della loro stanza, (il sole, la pioggia, i tramonti, la vita), e sovente, in conseguenza del loro confinamento, mostrano malattie dismetaboliche.
E poi ci sono le numerose manifestazioni dei giovani che gridano e scrivono sui muri, a parer mio giustamente «Ridateci il futuro», ma non ottengono ascolto né risposta. A questi giovani abbiamo dato i nostri geni, li abbiamo immessi in una società organizzata da noi, con il desiderio di clonarli, simili a noi ma, io dico fortunatamente, non ci siamo riusciti. Abbiamo allevato i nostri ragazzi nell’illusione di un benessere diffuso, facile da raggiungere, irreversibile e anzi migliorabile all’infinito, senza dire loro che gli enormi debiti che i governi del Paese fanno, per fronteggiare sempre nuove emergenze, saranno caricati sul loro futuro. Un comportamento cinico che la storia ci rimprovererà.
Li stiamo semplicemente imbrogliando soprattutto quando offriamo loro una scuola mediocre, ed è un eufemismo, che trascura il loro futuro conoscitivo e lavorativo.
Se nella corsa del palio di Siena, tra i cavalli che scalpitano davanti al canapo, come oggi scalpitano gli studenti, c’è qualche imbroglio, come un cavallo che parte in vantaggio, anche i cavalli migliori trovano difficoltà a competere e sarebbero sempre perdenti. I figli delle famiglie benestanti e colte hanno vantaggi enormi in confronto ai figli di famiglie più povere che non possono offrire niente: né un supporto culturale, né libri, né viaggi di istruzione all’estero e spesso neppure i mezzi per poter accedere alle lezioni "in remoto" in questo tempo intermittente e infinito di didattica a distanza. I figli delle famiglie meno abbienti saranno cavalli perdenti in partenza. È il blocco cinico dell’ascensore sociale. È un imbroglio di cui vergognarsi. Giustizia vuole che tutti i giovani partano dalla stessa linea di partenza per acquistare quella necessaria esperienza di vita per essere tutti abilitati a conquistarsi liberamente il loro ruolo nella società di domani.
I bambini, i ragazzi, non possono essere discriminati per la fortuna o sfortuna di essere nati in un posto invece di un altro.
Molte persone ritengono che i giovani di oggi – per i fenomeni epocali avvenuti in questi ultimi decenni, la globalizzazione, la rivoluzione digitale, le crisi economiche globali e per finire la pandemia – si trovino in un’involontaria difficoltà nell’affrontare il futuro o che lo facciano con affaticata passività.
Penso che la pandemia abbia risvegliato comprensibili istinti biologici, nei giovani il desiderio di libertà e negli anziani la voglia di conservazione. E so, per il mio mestiere di neurofisiologo, che i giovani, proprio in relazione alla loro età, hanno statisticamente un cervello che potenzialmente è a un livello ottimale di funzionamento, in quanto ha una maggiore plasticità, un maggior numero di sinapsi la cui densità è correlata strettamente con le potenzialità di apprendimento e di creatività, che in altre parole significa apertura cerebrale. Il cervello dei ragazzi è certamente funzionalmente migliore di quello degli adulti e più ancora di quello degli anziani, che talvolta li criticano additando i propri comportamenti come esempi da seguire.
I giovani hanno un cervello plastico, libero da blocchi funzionali creati da pregiudizi e sono biologicamente recettivi e reattivi sia al giusto che all’ingiusto. Siamo noi adulti, anziani, padri e nonni involontari imbroglioni che vogliamo mantenere privilegi spesso da noi non conquistati e quando pensiamo che la società deve essere mantenuta stabile e sicura piuttosto che giusta. Spero che sia chiaro qual è il futuro che con urgenza dobbiamo «riaprire».
Lamberto Maffei è presidente emerito dell’Accademia dei Lincei