mercoledì 22 gennaio 2014
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Da sempre vi sono due modi per guardare le istituzioni e la politica. Il primo è osservarla ex parte principis, vale a dire dal punto di vista di chi governa, o aspira a governare. È la prospettiva dominante nella scienza della politica e lo era anche nel diritto costituzionale ottocentesco, che non a caso era composto di regole non giustiziabili, consegnate in toto all’autoregolazione delle forze politiche dominanti. Il secondo è guardarla ex parte populi, vale a dire dalla parte dei governati, dei cittadini, all’estremo dei diritti individuali: questa è la prospettiva assunta – non di rado con qualche eccesso – dal diritto costituzionale contemporaneo. Guardando al compromesso raggiunto sulla legge elettorale da Renzi e Berlusconi, si giunge a due conclusioni diverse se si adotta la prima o la seconda prospettiva. Visto dal punto di vista delle forze politiche dominanti, quello raggiunto fra il 18 ed il 20 gennaio appare, nel complesso, un ottimo compromesso. Soddisfa le esigenze di Forza Italia e del nuovo ceto dirigente del Pd, senza sacrificare in maniera inaccettabile quelle delle altre forze politiche: la caduta del riparto dei seggi su base solo circoscrizionale (l’elemento "spagnolo" delle proposte in discussione la scorsa settimana) ha reso digeribile la soluzione alle forze intermedie che puntano ad entrare in una delle due coalizioni. Il premio di maggioranza (corposo, forse troppo, potenzialmente pari al 18-19 per cento) corrisponde alla cultura renziana e berlusconiana del "chi vince prende tutto". Il Movimento 5 Stelle si è chiamato fuori dalla trattativa, ma non viene danneggiato dalle liste bloccate corte, che significano, in sostanza, che si continuerà a votare per i partiti e non per i singoli parlamentari. L’unico punto disfunzionale e anomalo della bozza è lo sbarramento all’8 per cento per i partiti che non entrano in coalizione: sarebbe la sperrklausel più alta d’Europa, seconda solo a quella turca (ove non a caso su fissata dai militari golpisti del 1980, anche se fa oggi molto comodo ad Erdogan) ed è verosimile che essa sia incostituzionale. Per questo è probabile che sia stata stabilita così a scopi negoziali, per cedere un po’ su di essa nel corso dei lavori parlamentari, riportandola al 5 per cento. Resta, ovviamente, il nodo delle liste bloccate, che sono accesamente contestate dalla minoranza interna al Pd e da alcune forze minori, da Alfano ai centristi a Fratelli d’Italia. Ma si tratta di una contestazione che, vista ex parte principis, appare un po’ strumentale, in quanto essa ha la sua ragione ultima non in esigenze di equilibrio interpartitico, ma o nella "popolarità" del tema del diritto a scegliersi un deputato (dunque si tratta di propaganda) o nella dialettica interna alle forze politiche (è il caso, del tutto comprensibile, della minoranza bersaniana del Pd). Dunque, perché preoccuparsi? Se la condizione basilare di successo di un sistema elettorale è la sua accettabilità da parte delle forze che competono per il potere, il compromesso che reca il nome di Italicum sembra superare questo primo, pur sommario, esame.Tuttavia quello ora visto è solo un lato della medaglia. Se, infatti, ci si interroga sulla bozza guardandola ex parte populi, così come stanno le cose, il giudizio non può essere positivo. Il «diritto inviolabile di voto», posto dalla Corte costituzionale alla base della sentenza n. 1/2014 (con cui ha dichiarato incostituzionale la legge n. 270/2005) è il criterio con cui giudicare questo sistema. Ex parte populi, la domanda è: costituisce la bozza un progresso dal punto di vista della idoneità a rappresentare le articolazioni di una società sempre più inquieta e turbolenta? È essa in grado di assicurare un sistema politico aperto e responsabile, che non agisca solo per sé ma sia accountable (cioè responsabile e attendibile) verso coloro che è chiamato a rappresentare? A prendere sul serio le critiche non tecniche, ma di fondo, rivolte al Porcellum dal 2005 ad oggi, si dovrebbe rispondere di no. La bozza è animata da un’ideologia Highlander: gli immortali protagonisti di quel film ripetevano: «Ne resterà uno solo!», il che, tradotto in termini di sistemi elettorali, si può leggere: «Deve esserci ad ogni costo un vincitore, la sera delle elezioni», dunque mai più inciuci e larghe intese. Ma per realizzare questo obiettivo si accettano distorsioni fortissime della rappresentanza, non molto diverse da quelle operate dal Porcellum e colpite dai dardi dell’incostituzionalità, in quanto lesive del principio di rappresentatività, radicato, in ultima analisi, nell’eguaglianza del voto. Soprattutto, viste ex parte populi, le liste bloccate corte appaiono inaccettabili: esse sono un modo per aggirare il vincolo posto dalla Corte costituzionale (ed invero non poco discutibile in punto di diritto), che ha chiesto la "controllabilità" della propria scelta da parte dell’elettore, a tutela della sua libertà di voto. Ma i modi per realizzare questo obiettivo erano due: il collegio uninominale o le preferenze. Il sistema dei collegi plurinominali piccoli, con riparto dei seggi su scala nazionale, può rivelarsi molto opaco, e ricorda, in fondo, alcuni aspetti della legge oggi vigente per l’elezione dei Consigli provinciali (un paradosso, ricorrere ad un provincellum mentre si aboliscono le Province!). Visto dalla parte dei cittadini, il sistema è dunque ancora insoddisfacente. Esso è figlio di una visione della politica iperrealistica, alla Schumpeter, se si vuole. La scienza politica si è presa la rivincita sul diritto costituzionale. Non che si dovesse auspicare l’esatto contrario, che avrebbe forse condotto ad una legge esattamente uguale a quella uscita dalla sentenza della Corte (proporzionale puro con preferenze), ma il bilanciamento richiesto dal giudice delle leggi fra rappresentatività e governabilità rischia di esser realizzato quasi solo nella prospettiva del secondo dei due valori. Ma le bozze sono tali proprio perché possono essere migliorate.​
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