Ci sono due motivi per essere grati a Margherita II di Danimarca, domani ex regina, o forse regina emerita, comunque non più sovrana del suo piccolo regno del nord. Il primo è che abdica, cedendo la corona a suo figlio Frederik. I sovrani quasi sempre abdicano perché costretti: una guerra persa, uno scandalo. Abdicano perché non possono farne a meno, senza nascondere la convinzione di essere vittime di un’ingiustizia. Di solito abdicano accompagnati dal sospiro di sollievo dei loro sudditi: finalmente s’è tolto di mezzo. Margherita II, prossima agli 84 anni, portati egregiamente, abdica perché ritiene sia il momento giusto per farlo. Forse anche perché è meglio che il figlio maggiore Frederik diventi re prima dell’età pensionabile (è nato nel 1968, non è più un ragazzino). E i sudditi non gioiscono affatto, anzi sono dispiaciuti perché a Margherita vogliono bene.
Bisogna insomma esserle grati perché è uno dei rari esempi di non attaccamento morboso alla poltrona; e la sua poltrona era un trono vero, non metaforico, suo per ben 52 anni, non lontanissima dal record di longevità della cugina (di terzo grado) Elisabetta II d’Inghilterra: entrambe hanno un’antenata del calibro della regina Vittoria, ed è tutto dire. Chissà che non serva d’esempio a chi occupa altri “troni” da cui non riesce a scollarsi, in genere obiettando che nessuno sia dotato di terga adeguate all’arduo compito. Abdicherà come ha regnato, ossia in modo sobrio ed essenziale. Domani alle 14 firmerà l’atto ufficiale al Castello di Christianborg, alle 15 la proclamazione, alle 17 il trasferimento delle insegne reali al palazzo di Amaleinborg, residenza di Frederik IX. Questa la scarna cronaca. Il secondo motivo di gratitudine è che la regina non si è limitata a regnare, ma ci ha lasciato quadri e illustrazioni – è una vera maestra del decoupage – tra cui quelle che accompagnano l’edizione danese del Signore degli anelli. Di recente ci ha lasciato un piccolo film delizioso come sanno esserlo certe piccole fiabe, opera di cui ha curato – maniacalmente, come è palese nel documentario che ne racconta la genesi – costumi e scenografie. È un film progettato per più di dieci anni; e vien da domandarsi che se pure una regina ci mette così tanto a trovare un produttore, be’, sarà sì potente ma assai poco invadente.
Il film, prodotto da Netflix, è Ehrengard - L’arte della seduzione, tratto da una novella scritta nel 1962 da Karen Blixen e diretto da Bille August, non più un ragazzino neppure lui, ma dal ragguardevole pedigree, avendo vinto per due volte la Palma d’oro a Cannes e pure un Oscar. Ambientato in un regno immaginario della Mitteleuropa, ha un titolo ingannatore: il seduttore finisce amabilmente sconfitto e deriso e il personaggio forte non è lui, Cazotte, pittore francese, ma Ehrengard, la ragazza che lo mette nel sacco, ben più forte e sicura, eppure priva di spocchia. Resta fedele al fidanzato, con il quale tira di scherma (tanto per capire di che pasta sia fatta) ed è un modello di donna terribilmente seducente, paladina di un “femminismo” orgoglioso ma non aggressivo né ostile verso il maschio, che non ha bisogno di umiliare perché la sua arma è l’ironia lieve di chi è consapevole della propria forza.
Va da sé che tanta passione per il progetto e tanto amore per la fiaba di Karen Blixen inducono a pensare che Margherita si identifichi in Ehrengard, la senta “sua”. Lei ha regnato come avrebbe regnato Ehrengard, ed Ehrengard avrebbe regnato come Margherita. E alla soglia degli 84 anni avrebbe abdicato. Continuando comunque a tirare di spada, perché dalle ottime abitudini non si abdica.