La valutazione a scuola è un diritto assoluto e inequivocabile di ogni alunno: il diritto a riconoscere i propri apprendimenti e progressi, nonché lo stato della propria crescita come allievo. La scuola è ancora oggi caratterizzata da pratiche inerziali, uno strascico del passato di quelle procedure assunte in maniera puramente conservativa senza alcuna base scientifica. Ne è un esempio l’uso della campanella per scandire la fine delle lezioni: non se ne conosce l’origine, semplicemente si è sempre fatto così e si fa tuttora così... si spera di non andare anche avanti così.
Lo stesso discorso vale per i voti numerici.
Detto questo, il problema quindi non è la valutazione in sé, sarebbe un equivoco fuorviante pensare che sia possibile una scuola senza valutazione, ma le modalità che la caratterizzano. Sono giuste e adeguate? Io e tanti altri pedagogisti e specialisti del settore riteniamo di no. Qual è il problema della valutazione numerica? La cristallizzazione del giudizio generata dal numero e la sua misteriosità, perché un 4 o un 7 non possono “parlare” e il loro messaggio non è chiaro... Non esprimono la composizione della valutazione, ma semplicemente condensano in un numero una situazione che, viceversa, è plastica e mobile creando un cortocircuito di cui fanno le spese i destinatari del processo scolastico, ossia gli alunni.
Occorre quindi puntare su valutazioni “parlanti”, che specificano cosa l’alunno ha imparato, cosa ancora deve imparare e il suo processo di apprendimento. Questo in parte già avviene nelle forme di valutazione narrativa introdotte nella scuola primaria dall’ordinanza ministeriale n. 172 del 4 dicembre 2020, che riprendono quelle già presenti prima del 2009 alle elementari e alle medie e che la ministra Mariastella Gelmini aveva abolito. Non si tratta quindi di una fantasia di qualche pedagogista, ma ha una sua precisa storia assolutamente legittima. Per una proposta migliore ho ideato la valutazione evolutiva, un quid metodologico che sappia tener conto dei progressi e non degli errori, ossia la capacità di un alunno di progredire rispetto ai propri punti di partenza piuttosto che la registrazione comparativa delle performance fra gli alunni stessi. L’errore non è ciò che discrimina giusto e sbagliato ma l’elemento che consente di riorientare il processo di apprendimento nel momento in cui sta prendendo una strada non pertinente con gli obiettivi utili all’apprendimento stesso.
I passaggi “provare-sbagliare-riprovare” consentono di acquisire maggiori competenze. La scuola tradizionale pecca di ingenuità nel pensare che puntare alla risposta esatta sia foriero di apprendimento. Nelle esperienze scolastiche ad approccio maieutico si dà valore e rilievo ai tentativi che il soggetto compie per raggiungere un risultato: conta il percorso compiuto per arrivare alla risposta desiderata, non la risposta in sé. Chi sa stare nell’errore impara di più. Negarne la valenza evolutiva significa attivare un processo di apprendimento mutilato, funzionale a una selezione artificiale, se non addirittura artificiosa.
È forse possibile imparare a sciare o ad andare in bicicletta senza cadere? Definisco la valutazione evolutiva “antipigrizia”. Costringe infatti a tirar fuori il meglio di sé, a dare il massimo invece che accontentarsi magari di un risultato ottenuto favorevolmente perché aiutati e sostenuti a casa da una pletora di assistenti, genitori compresi. Ricordo che quando frequentavo il liceo i voti numerici erano assolutamente convenzionali: quando un alunno andava bene in varie materie finiva con l’andare bene per inerzia un po’ in tutte. L’effetto-alone su di lui gli dava un’apparenza positiva. La valutazione narrativa su base evolutiva consente un maggior rigore rispetto a quella con i voti numerici, che non solo cristallizzano ma favoriscono la pigrizia di chi si accontenta. Non si tratta di cambiare per il gusto di cambiare, quanto di saper trovare i dispositivi adeguati a vivere la scuola come sfida.
pedagogista