E così, lunedì Israele, la Palestina, il Medio Oriente e il mondo vivranno una svolta epocale. Questo è, infatti, il trasferimento ufficiale da Tel Aviv a Gerusalemme dell’Ambasciata degli Stati Uniti d’America che sarà ospitata nell’edificio del Consolato americano fino a quando non sarà pronta una sede nuova di zecca. Ci sono molte ragioni per la decisione annunciata da Donald Trump il 6 dicembre scorso. Il desiderio di compiacere una parte importante del suo elettorato e ancor più il profondo rimescolìo di carte in corso in Medio Oriente.
La superpotenza, abituata a dominare la regione, ha vissuto brucianti sconfitte (l’Iraq è diventato sciita, l’Iran non è crollato sotto le sanzioni e al contrario ha esteso la propria influenza, la Siria di Assad ha resistito, la Turchia è un partner meno ossequiente di prima) e si è trovata a dover gestire la concorrenza inattesa della Russia di Vladimir Putin. Da qui la necessità di rinsaldare in tutta fretta le alleanze strategiche, anche senza andare troppo per il sottile: armi e onori all’Arabia Saudita che pure è sponsor di molti jihadismi, concessioni a Israele e il progetto per nulla segreto di arrivare a una collaborazione tra questi due Paesi che furono a lungo nemici.
Molte le ragioni, si diceva, ma una la conseguenza. La decisione di Trump fornisce copertura politica alla strategia dell’occupazione militare dei territori palestinesi che Israele varò nel 1967 per ragioni di sicurezza e che negli anni si è invece trasformata in allargamento del proprio territorio. Così facendo, Trump seppellisce anche quel minimo di concertazione tra le nazioni che a fatica resisteva, e mina alla base il concetto stesso di diritto internazionale. È bene essere chiari: in questo Israele c’entra poco. Nessuno può impedire a un popolo di considerare questa o quella città come propria capitale. E gli israeliani, laici o religiosi che siano, da lunghissimo tempo hanno chiarito che per loro la capitale è la Città Santa. Ragionamento che, ovviamente, vale anche per la controparte palestinese.
Ma la domanda è: il resto del mondo che ci sta a fare? E diciamo "resto del mondo" non a caso. All’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, riunita per discutere della svolta americana, 128 Paesi hanno votato contro la decisione di Trump (con 35 astenuti e 9 a favore, Israele ovviamente compreso), in coerenza con una posizione assai chiara, condivisa e consolidata nel tempo, per esempio con le Risoluzioni del 1971, 1980 (due volte), 1993 e 1997, fino alla sentenza della Corte internazionale di Giustizia che nel 2004 ha definito Israele, per quanto riguarda Gerusalemme Est, «potenza occupante».
Non riuscire a farsi sentire, e a far ragionare le parti in causa, su una questione che da decenni infetta il Medio Oriente è un’umiliazione che ognuno di noi dovrebbe sentir propria e meditare a lungo. Anche e soprattutto alla luce delle sanguinose crisi che si susseguono senza sosta e dimostrano senza possibilità di equivoco che gli atti d’imperio, da quelle parti, con grande facilità si risolvono in tragedie. Israele ha gli strumenti, l’intelligenza, l’astuzia, la determinazione (quanto abbiamo visto al confine di Gaza in queste settimane lo ha ribadito) e gli appoggi (primo fra tutti quello degli Usa) per gestire con successo questa ennesima prova di forza.
Ma ne ha anche la convenienza? Il suo isolamento internazionale cresce, la natura liberale e inclusiva del suo Stato cala e i palestinesi, ormai privi di ragionevoli speranze nella nascita di un loro Stato, dovranno prima o poi essere gestiti e integrati, visto che non possono sparire né ovviamente essere eliminati. La strategia del pugno di ferro rimanda il problema intanto che lo acuisce, certo non lo risolve.
E nel frattempo l’intero Medio Oriente tutt’intorno si sfrangia in una guerra che muta scenario e natura, ma non si arresta. In parallelo, una frazione della dirigenza palestinese, dopo essersi bruciata gran parte delle alleanze e delle simpatie di un tempo, continua a bruciare tanti suoi giovani in una politica del sacrificio dimostrativo che nulla dimostra se non la disperazione e l’impotenza in cui è precipitata. Il fallimento su Gerusalemme Est, comunque, viene da lontano ed è figlio della mentalità 'accordo su tutto o nessun accordo' che già fece naufragare, nel 2000, il vertice di Camp David convocato da Bill Clinton per trovare un’intesa tra Yasser Arafat ed Ehud Barak.
Anche allora il leader dell’Olp e il primo ministro israeliano s’inchiodarono su Gerusalemme e sulla proposta di una «sovranità condivisa » che nessuno dei due alla fine ebbe il coraggio di accettare. Seguirono la provocazione di Ariel Sharon sulla Spianata delle Moschee e un’intifada, la seconda, che durò anni. Le occasioni perse, soprattutto in Medio Oriente, stentano a ripresentarsi.