Caro Avvenire,
ho letto con interesse e commozione la risposta “La coppia reale sposata da 70 anni e la nostra nostalgia di una promessa” sul giornale del 21 novembre 2017 – sono abbonato ad Avvenire, da non so più quanti anni. Non ho potuto fare a meno di prendere carta e penna per raccontare qualcosa del cammino effettuato con mia moglie in 66 anni di matrimonio (più 4 di fidanzamento: io ho 93 anni e lei 88) tenendoci per mano finché è stato possibile, perché da oltre tre anni lei è ricoverata in una casa di riposo a causa dell’Alzheimer. Sì: tenendoci per mano, come ricordo di quel lontano pomeriggio di domenica quando, usciti assieme per la prima volta, andammo a Porta Romana alla Madonna di San Celso a pregare per il nostro futuro: una decisione e un atteggiamento oggi alquanto rari. Aggiungo che quell’incontro non lo chiesi a lei (avevo 23 anni e lei 18) ma per iscritto alla sua mamma, che rispose accondiscendendo, ma raccomandando prudenza data la nostra giovane età. Sembrano cose dell’altro mondo, ma quanto ha concorso quella “prudenza” al nostro felice cammino! Ci sono stati anche per noi come per tutti, giorni gioiosi e altri nuvolosi, ma grazie a Dio la volontà di concludere le giornate con un “buona notte” non è mai mancata. A qualcuno che mi ha chiesto come abbia potuto durare così tanto la nostra unione, ho risposto citando le parole di papa Francesco nella Esortazione apostolica sull’amore nella famiglia: «Quando in una famiglia non si è invadenti e si chiede “permesso”, quando in una famiglia non si è egoisti e si impara a dire “grazie” e quando in una famiglia uno si accorge che uno ha fatto una cosa brutta e sa chiedere “scusa”, in quella famiglia c’è pace e gioia». Perciò, anche se ora sono solo nella nostra casa, pur confortato da una figlia e da due nipoti che presto mi renderanno bisnonno, concordo con la risposta di Marina Corradi: esiste forte dentro di noi una nostalgia di quella promessa nella buona e nella cattiva sorte, per sempre.
Angelo Pria Milano
Ci sono lettere che con poche righe ti trascinano altrove. Io mi immagino una mattina del 1947, in una Milano ancora sfregiata dagli sventramenti della guerra, eppure già percorsa da una ansiosa voglia di risorgere, di ricostruire, di rinascere. In queste strade ancora piene di macerie due ragazzi, una domenica, al loro primo appuntamento. Lei ha 18 anni appena, lui 23. Vanno in un santuario caro da sempre ai milanesi, Santa Maria presso San Celso, in corso Italia, detta anche Santa Maria dei Miracoli, a domandare grazie per il loro cammino. E sì, il domandare il permesso alla mamma di lei appartiene proprio a un altro tempo e un altro mondo, irripetibili. Ma quell’andare a pregare per il proprio futuro insieme invece no, non è qualcosa del passato. È un domandare realistico, tanto difficile essendo ormai restare insieme e continuare a volersi bene per sempre. È un affermare che in quel cammino non si è solo in due, ma in realtà c’è un terzo, presente, garante del nostro camminare insieme. Quell’andare a domandare alla Madonna di San Celso, quanto è servito, scrive il nostro anziano lettore. È servito tanto che oggi, 70 anni dopo, quando la moglie è malata di Alzheimer e ricoverata in un istituto, lui va a trovarla due volte al giorno, e le ha scritto anche una poesia in milanese. Ne riportiamo la prima strofa: « Quand vegni a trovat, mattina e dop-disnà, / e ti, cont i tò bei oeucc’, te me guardet fissa, / me par de capì che te vorariset parlà, / però la toa vos l’è fioca, sottomissa. / E pensà che l’era inscì cara la toa vos, / condida semper da on sorris bell e contagios ». (Quando vengo a trovarti, la mattina e dopo pranzo, e tu, con i tuoi begli occhi, mi guardi fissa, mi pare di capire che vorresti parlare, però la tua voce è fioca, sommessa. E pensare che era così cara la tua voce, accompagnata sempre da un sorriso bello e contagioso'). Oggi, aggiunge lui, rimasto solo nella casa in cui hanno vissuto tutta la vita, « el sacch che porti sui spall, l’è quasi pien. / Disen che l’è mai tropp quell che voeur el Signor, / fidemes de Lù: sarà el noster Consulador ». («Il sacco che porto sulle spalle è quasi pieno. Dicono che non è mai troppo quello che vuole il Signore. Fidiamoci di Lui, sarà il nostro Consolatore»). Ecco due che ci sono riusciti, a volersi bene per sempre. Come la guarda ancora lui negli occhi, come attende una parola che per la malattia non viene. Volontà, impegno, certo. Ma anche la consapevolezza di aver bisogno dell’aiuto di Dio, e di domandarlo. Bisognerebbe dirlo ai figli che si sposano, che occorre questa umiltà di domandare, per continuare a volersi bene. Come quei ragazzi così giovani, fra le macerie di Milano, subito dopo la guerra, tanti anni fa.