Dove porta il sovranismo
giovedì 29 settembre 2022

L’ultimo e recente sondaggio di Eurobarometro segnala che il 65% dei cittadini è ottimista sul futuro della Ue e il 47% ha una visione positiva dell’Unione (il 36% una neutra), il livello più alto dal 2009, mentre il 49% degli europei tende a fidarsi delle istituzioni comuni più del proprio governo (al 34%). In questo contesto, gli italiani sono spesso tra i più europeisti, almeno a parole. Non si può, tuttavia, dimenticare che l’opinione comune si forma più per sentito dire e per il clima che si respira nel Paese che per una conoscenza diretta di meriti e limiti dell’Europa unita. Se con l’attuale governo e il generoso Pnrr da 200 miliardi, Bruxelles è sembrata più vicina e amica, il nascente governo di centrodestra si presenta perlomeno ambivalente nei confronti della Ue. La premier in pectore Giorgia Meloni, in particolare, ha una posizione che finora è emersa piuttosto chiaramente dai fatti, che vanno letti oltre le dichiarazioni spesso di segno diverso.

La leader di Fratelli d’Italia non è antieuropeista. Presiede i conservatori europei che a Strasburgo raggruppano una significativa pattuglia di deputati e in queste ore sta mandando impliciti (con i suoi silenzi e le notizie fatte trapelare) ed espliciti messaggi di rassicurazione ai Palazzi comunitari e alle principali capitali del continente, al di là della sintonia politica con i diversi esecutivi. È perfettamente consapevole che segnali di rottura con la cosiddetta 'agenda Draghi' non possono che risultare autolesionisti per l’interesse nazionale.

E sta proprio qui la chiave per comprendere la prospettiva europea peculiare – e segnata da forte discontinuità – che Meloni sembra volere perseguire, in questo probabilmente sostenuta dalla Lega e, forse, frenata per quanto possibile da Forza Italia. Non è tanto il «la pacchia è finita» rivolto a Bruxelles che le è sfuggito nel comizio elettorale di Milano dell’11 settembre. Sono invece alcuni atti meditati. Due appaiono particolarmente indicativi. Il primo è dato dai progetti di legge n. 291 e n. 298 presentati alla Camera all’esordio (marzo 2018) della legislatura che va a concludersi. In sintesi, la proposta è di modificare l’interpretazione dell’articolo 11 della Costituzione nella parte in cui afferma che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Lo strumento sarebbe l’abolizione di parti di altri articoli (97, 117 e 119) che rendono il diritto comunitario sovraordinato a quello italiano per le materie stabilite dai Trattati.

L’obiettivo: fare sì che norme e vincoli europei siano applicabili «solo in quanto compatibili» con la piena e primaria sovranità della nostra Repubblica. Si tratta di quanto stanno cercando di fare Polonia e Ungheria, finite per questo sotto la lente dell’Europa per la violazione di ciò che loro stesse hanno sottoscritto con l’adesione alla Ue. Non è un caso che il secondo atto da segnalare di Meloni è il voto convintamente contrario di Fdi (e della Lega) alla risoluzione dell’Europarlamento contro Bupadest, il 15 settembre scorso, per il mancato rispetto dei valori fondamentali dell’Unione. La motivazione ufficiale del 'no' è che il rapporto è frutto di un pregiudizio nelle valutazioni; vi è infatti una relazione di minoranza la quale legge in modo opposto le leggi varate e le decisioni del governo ungherese.

Sotto traccia, si può intravedere però una condivisione di metodo. Non significa che Fratelli d’Italia condivida, per esempio, le norme liberticide di Orbán sui media (probabilmente è il contrario). Vuole invece dire che Fdi ritiene la Ue incompetente a giudicare (e a sanzionare) quello che una nazione 'sovrana' sceglie di fare. È l’Europa degli Stati e dei 27 leader – dove basta un singolo membro a mettere il veto e bloccare le deliberazioni – opposta al modello federale della maggiore integrazione e delle istituzioni comuni, o almeno del voto a maggioranza.

Questo modello rischia di mettere l’Italia ai margini del progetto europeo o addirittura di contribuire a ridimensionarlo, dato il peso che Roma ha a livello continentale rispetto a Polonia e Ungheria. Avere una Ue più debole e meno efficace può comportare un costo non soltanto economico, in un contesto globale segnato da forti turbolenze. E lo stesso atlantismo professato da tutti i partiti che andranno a comporre la maggioranza rischia di diventare schizofrenico se venato da un nazionalismo che tende a isolarci dagli alleati più naturali, cioè quelli che sono ai nostri confini e condividono il destino geostrategico, a partire dalla tragica guerra nel cuore del continente.

Nessuna politica, tuttavia, si esercita nel vuoto. Forse Meloni, in mancanza o in attesa di altre sponde robuste, terrà una posizione attendista. In ogni caso, frenare la vocazione europea dell’Italia non sarebbe una scelta vincente e potrebbe costare caro ai cittadini il cui interesse si dichiara di voler difendere.

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