domenica 25 gennaio 2009
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Una raffica di stupri sulle prime pagine. Si potrebbe reagire allo sgomento, in un’istintiva difesa, addebitando l’allarme a un’emotività mediatica che periodicamente accende i riflettori su un fenomeno drammatico, ma secondo le statistiche sostanzialmente non in aumento. Si potrebbe pensare a strumentalizzazioni: episodi usati per rinfacciarsi, tra avversari politici, inefficaci strategie di sicurezza. Oppure, si può mettere sul banco degli imputati gli immigrati, in un’ansia di capro espiatorio. O, al contrario, negare del tutto che i clandestini qualche problema di ordine pubblico lo creino. Tutte reazioni che hanno in sé qualcosa di ideologico: spiegano, e piegano, la realtà secondo un giudizio predefinito. Ma c’è un’altra reazione, ampia, poco pubblicamente detta, e invece molto concreta. È l’inquietudine di tante donne che su un autobus, o la sera in una via di periferia, cominciano ad avere una paura che credevano di non dovere più avere. E se in pochi mesi accade, e continua a accadere, che donne vengano violentate, magari da tre, da cinque assieme, o come nel caso di Giovanna Reggiani uccise davanti a una stazione deserta, le statistiche possono dire ciò che vogliono, ma la paura scatta: quante, scendendo stasera a un capolinea, quel pensiero in un angolo della mente l’avranno, e si guarderanno attorno sperando di non essere sole? Già, le statistiche. L’Istat dice che il 69% delle violenze è compiuta nella cerchia di familiari o conoscenti. Secondo il ministero dell’Interno gli stupri (quelli denunciati, naturalmente) negli ultimi anni oscillano attorno ai 4.600 nei dodici mesi, 13 al giorno. Circa un terzo dei denunciati sono stranieri, con una tendenza all’aumento: dal 35% del 2004 al 38% del 2006. Il che comunque vorrebbe ancora dire che la maggior parte degli stupri è opera di italiani. E dunque, sostanzialmente, tutto come dentro una tragica abitudine, in cifre più o meno consuete. Le statistiche, sono una gran bella cosa. Sezionano la realtà, la incolonnano. Non bastano però a raccontarla davvero. Perché c’è invece qualcosa di nuovo, al di là dei numeri, in queste storie di madri di famiglia sequestrate sotto casa, o di badanti violentate da una banda di tre, come a Brescia. C’è la ferocia dello stupro di gruppo, dell’accanirsi in tanti su una donna magari ormai svenuta, come fosse una cosa di carne. C’è l’affiorare di una bestialità che è sempre esistita, nelle invasioni barbariche come nelle guerre civili dell’oggi; ma che è agghiacciante vedere risorgere nelle nostre progredite metropoli. Come se dalle caverne al Web, nel cuore degli uomini, non vi fossero migliaia d’anni, ma pochi secondi. Stranieri, alle volte, i carnefici, brutali importatori di un modo tribale di guardare alla donna. Ma anche bande di adolescenti italiani – che, intanto, filmano la loro vittima con il cellulare. Trent’anni fa il Circeo fu il delitto orrendo di una banda di neofascisti, una faccenda quasi ideologica, pensata. Quelli che a Guidonia hanno violentato in cinque una ragazza forse si conoscevano a stento, messi insieme dal caso, branco in una periferia abbandonata. Una violenza barbarica si sta allargando tra le nostre case. E per quanta polizia le possa sorvegliare, ci sarà sempre un viottolo buio. Leggi, controlli, tutto è doveroso. Ma nessuna telecamera basta a controllare il cuore degli uomini. Accade, intanto, continua a accadere. Nei pensieri di studentesse e operaie e medici e ingegneri informatici – donne, però – la sera, all’ora di rincasare, un’inquietudine grave, subito con la volontà scacciata. Che cos’è? La paura antica di poter essere, in quanto donne, prede.
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