Giovani in preghiera nella chiesa della comunità ecumenica di Taizé
«I giovani, la fede e il discernimento vocazionale». L’Instrumentum laboris, cioè il documento sul quale la Chiesa cattolica sarà chiamata a interrogarsi durante il Sinodo nel mese di ottobre, parte con questo titolo; ed è interessante, perché, mi pare, lascia intuire come l’attenzione tanto di papa Francesco, che il Sinodo ha voluto e convocato, quanto di chi sta lavorando sodo per preparare questa grande assemblea, sia rivolta ai giovani: non però ad alcuni, tralasciando gli altri, non a chi frequenta assiduamente, mettendo quasi da parte chi non si vede mai in chiesa, e nemmeno a chi si riconosce nel cristianesimo cattolico, trascurando chi vive invece un’altra esperienza di fede, cristiana e non, e non curandosi di chi una fede non ce l’ha o la sta cercando. Interessante, perché lo vedo come un ulteriore segno di quella apertura del cuore, a cui, come credenti, siamo chiamati: non solo dal Papa, ma prima di tutto dal Vangelo.
Nei mesi scorsi, allora, abbiamo cercato anche noi di prendere sul serio questa nota di apertura che ci sembra di leggere nelle intenzioni del Sinodo. E così ci siamo rivolti a una rappresentanza di giovani ortodossi e protestanti italiani, perché non è assolutamente scontato che tutti i credenti del nostro Paese si riconoscano nella tradizione cattolica. Il ritorno che ne abbiamo avuto è degno di nota; come forse ci si poteva immaginare, del resto. Già, perché una ricerca di fede e di senso, o la volontà di una scelta di vita in sintonia con il proprio credo, o anche gli interrogativi che la società di oggi suscita nel cuore di un giovane, sono elementi trasversali e caratterizzano ogni uomo che pensa.
È così allora che uno studente universitario ortodosso confessa tutta la sua fatica nel parlare di fede con i suoi coetanei, fatica riscontrata anche nei contesti lavorativi; gli fa eco un ragazzo protestante; in questo modo essi riconoscono un’aridità che forse è il frutto di una diffusa indifferenza rispetto a ciò che 'sa di chiesa', tipica anche di chi riveste il ruolo di guida culturale o professionale dei giovani. E ciò fa pensare, perché punta il dito contro quel vuoto di valori che tutti siamo abituati a denunciare, ma a cui non sappiamo trovare l’antidoto. Per contro, una ragazza appartenente a una delle tante Chiese protestanti che arricchiscono la cristianità italiana riconosce il ruolo sociale svolto dalla Chiesa cattolica, soprattutto verso i poveri e gli stranieri. È una sottolineatura importante, questa: innanzitutto perché parla la lingua del Vangelo, di quell’«amatevi gli uni gli altri» che rimane la cifra di riconoscimento dei discepoli di Gesù; ma poi perché è anche qui che si sta giocando, oggi, una delle partite ecumeniche più fruttuose delle nostre Chiese: accogliere e accompagnare i profughi, sostenere e difendere i più deboli, prodigarsi per testimoniare il Vangelo della carità sta diventando sempre di più un’azione comune alle Chiese.
Ne sono testimonianza i corridoi umanitari, ideati da protestanti e cattolici per favorire la sicurezza nell’ingresso in Italia di profughi provenienti da Paesi in guerra, come anche molteplici azioni volte a promuovere una mentalità di condivisione e di solidarietà, frutto di collaborazione fra credenti di diverse Chiese. Quasi a dire che mentre alcuni aspetti teologici ancora dividono i cristiani, aspetti sicuramente importanti ma peraltro non sempre determinanti, la carità invece li sa unire, eccome! Anche se ciò non basta, evidentemente: non possiamo pensare che sia sufficiente compiere qualche buona azione, pur intelligente e fatta insieme, credendo di aver risolto in questo modo il divario generazionale di cui tutti soffriamo.
È ciò che fanno emergere alcuni ragazzi ortodossi, quando – nel loro contributo – riconoscono come i metodi e le idee proposte dalla Chiesa si rivelino spesso inefficaci verso le nuove generazioni. Parlano di Chiesa, al singolare: ma nessuno si nasconde il fatto che questa fatica è plurale e accomuna tutte le Chiese. Ora non è questo il luogo per indagare i motivi di questa distanza tra le Chiese e i giovani, che poi si traduce in numeri sempre piuttosto bassi, in risultati a volte demotivanti, in scarsità di ministri che si mettano a servizio delle rispettive comunità. Piuttosto, anche da queste testimonianze, possiamo riconoscere come la fatica comune a tutte le Chiese non sia da liquidare semplicemente con il 'mezzo gaudio' del noto proverbio: niente affatto, sarebbe una rassegnazione triste e improduttiva. Essa invece conferma un’impressione condivisa da molti, io credo: che c’è bisogno di altro, quasi di uno scatto di orgoglio da parte dei cristiani convinti, pochi o tanti, giovani o meno giovani che siano; che ci rendiamo conto cioè che il Vangelo del Cristo è ancora una forza dirompente e sa costruire quel futuro che noi a volte vediamo avvolto nella foschia di un non capire, di un non sapere cosa dire o cosa fare.
Significativo che un gruppo di giovani protestanti riconosca come i cammini di catechesi delle Chiese – anche qui vale il plurale – raggiungano molti giovanissimi ma abbiano poco da dire ai giovani; quando invece il Vangelo ha ancora molto da dire, ed è convinzione di tutte le comunità cristiane. È qui che traspare – mi sembra – la chiamata a 'sentire il Cristo': è la bella espressione di un giovane ortodosso che afferma di confrontarsi spesso anche con molti coetanei cattolici, «alcuni realmente praticanti». Sentire il Cristo: avvertirlo come la conditio sine qua non della propria esistenza, riconoscere cioè che senza il Cristo e il suo Vangelo nessuna delle nostre testimonianze può dirsi veramente cristiana e men che meno può pretendere di lasciare il segno. Emergono qui l’attesa e il desiderio di gustare la bellezza di una vita spesa per il Vangelo, a tutto campo e in tutti i campi: una bellezza che ancora si può incontrare, anche nelle nostre realtà, e che ancora si può diffondere, con l’impegno di ciascuno di noi. A patto però che ciascuno si renda conto che essere cristiani credibili significa cercar di essere cristiani coerenti. E la coerenza va sempre a braccetto anche con il costruire comunione; e a sua volta, il costruire comunione prevede necessariamente un soggetto al plurale, un noi.
È incoraggiante allora il fatto che i giovani interpellati si augurino di poter continuare il cammino di collaborazione fraterna. O meglio, forse più che di un incoraggiamento si tratta di un vero mandato, di una mission affidata alle Chiese. È la traduzione di quello che papa Francesco va continuamente dicendo e dimostrando, insieme a molti pastori di tutte le Chiese: cioè che «l’unità si fa camminando», che tutto ciò che ancora divide i credenti in Cristo non ha né la forza né il diritto di tarpare le ali a quel desiderio di comunione, che è custodito nel profondo di ogni creatura. E di cui i cristiani, a qualsiasi Chiesa appartengano, sono chiamati ad essere testimoni e costruttori. Già, perché la fede in un Dio che è uno e trino, singolare e plurale, non può che andare in questa direzione.
Direttore dell’Ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei