Il merito è diventato di destra, ha detto in una recente intervista il sociologo Luca Ricolfi, che al tema ha dedicato un pamphlet efficace quanto divisivo. Delle tesi dell’opera si occupa l'editoriale di Luigino Bruni. Può essere utile, tuttavia, ragionare di come questo concetto sia usato e conteso nell’ambito politico. Negli stessi giorni in cui è stato pubblicato il volume di Ricolfi, è apparso, con comprensibile maggiore copertura mediatica, il libro intervista di Giorgia Meloni con Alessandro Sallusti, La versione di Giorgia (anche “Avvenire” ne ha proposto un’anticipazione).
Nella prima sezione, la presidente del Consiglio discute del merito intrecciando considerazioni generali con la propria vicenda personale. Ciò che è opportuno dal punto di vista narrativo finisce con il dare un quadro fuorviante in cui collocare le scelte pubbliche. Dice Meloni a pagina 17: «Sicuri di avere fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli obiettivi che vi eravate dati? Per come la vedo io, e per la mia esperienza personale, io sono certa che il nostro destino dipenda soprattutto da quello che noi siamo disposti a fare, da quanto siamo disposti a lavorare, da quanto siamo disposti a sacrificare. Il destino siamo soprattutto noi». E alla pagina successiva la (legittima) rivendicazione del suo successo: «Se una persona che veniva dal niente può arrivare a governare l’Italia, allora forse tutti possiamo fare cose impensabili».
Che cosa c’è qui? L’etica del lavoro e dell’impegno personale. Ma anche il caso e i colli di bottiglia attraverso cui una sola persona su 60 milioni di italiani può diventare inquilino principale di Palazzo Chigi. La gran parte delle “cose impensabili” che possiamo fare sono disponibili in numero ridotto. In ogni istituzione c’è solo un presidente, in ogni ospedale pochi primari, in ogni azienda alcuni dirigenti… Ha perfettamente senso che la società punti ad avere le persone più competenti, capaci, intelligenti e volitive nelle posizioni chiave. Ma il merito, cosa che lo stesso Ricolfi non sottolinea abbastanza, è la giustificazione (morale) per l’accesso a quelle posizioni. Se ottenessimo una sostanza che toglie qualsiasi tremore, indecisione ed esitazione ai chirurghi, permettendo loro di stare concentrati al massimo per molte ore, e se scoprissimo che tale sostanza fa effetto soltanto su uno studente di medicina ogni cento, la scelta più razionale sarebbe quella di riservare quella sostanza agli studenti “fortunati” e consentire loro di occupare i ruoli più importanti nelle sedi principali. Tuttavia, non ne avrebbero merito maggiore dei loro colleghi su cui la sostanza citata non funziona e che fanno del loro meglio in altre sale operatorie.
La parabola politica recente del merito – al netto delle polemiche strumentali e di vista corta – sembra allora questa. La sinistra post-comunista (discutibile l’idea di Ricolfi che Togliatti avesse un approccio liberale al merito) lo ha adottato come mezzo per aumentare l’uguaglianza con il mantra dell’istruzione (si pensi agli enfatici e ormai famosi inviti di Barack Obama a studiare rivolti ai ragazzi americani). Il merito, però, in primo luogo deve funzionare come criterio selettivo – e si è visto che le università continuano a riflettere la struttura sociale profondamente diseguale degli Stati Uniti – e poi deve dare risultati in termini di benessere complessivo. E anche qui le cose non sono andate per il verso giusto. Per una combinazione di fattori, l’effetto è stato l’esplodere della competizione per pochi posti dai quali rimane esclusa una maggioranza che si ritrova frustrata e insoddisfatta, perché costretta a impieghi sottopagati per i quali è eccessivamente istruita. Così l’ideale del merito ha mostrato tutti i suoi limiti.
In chiave italiana, l’eccesso opposto, ovviamente, può essere rappresentato dai “bamboccioni” o dagli “sdraiati”, poco disposti a darsi da fare e inclini a divertirsi a spese dei genitori o dei nonni. Tuttavia, qui il merito o la sua retorica c’entrano poco. Ugualmente, la cultura di destra che cerca di allargare la sua platea, vittima del complesso di inferiorità rispetto all’ormai superata egemonia della sinistra, ha colto il cambio di vento e innalzato la bandiera del merito, a partire dalla nuova denominazione del ministero dell’Istruzione. Il rischio che si intravede è quello di politiche che siano orientate al merito solo per chi vota o potrebbe votare centrodestra. Politiche che equiparano (di fatto e senza fondamento) chi ce l’ha fatta a chi lo meritava e perpetuano privilegi e disuguaglianze sotto il vessillo di un volontarismo alla Vittorio Alfieri, lontano da ogni riflessione aggiornata sia nel campo delle scienze sociali sia in quello delle scienze biologiche.
(Ciò non significa che Giorgia Meloni non si sia meritata quello che ha ottenuto. Va però ricordato che per ogni storia di successo che si racconta ce ne sono migliaia di insuccesso che rimangono nell’ombra. E per un “meritevole” celebrato e felice ci sono moltissimi “non meritevoli” che sono fatti sentire falliti).
In definitiva, la “modesta proposta” avanzata da Ricolfi alla fine del suo libro per sostenere un potenziamento del diritto allo studio va nella giusta direzione, magari ricordando che la posa anti-intellettualistica di tanta classe politica di destra rischia di scoraggiare la dedizione al sapere ben oltre i fondi che si distribuiranno.
Alla luce delle conoscenze attuali, soprattutto servirebbe un intervento per l’uguaglianza delle condizioni di partenza nei primi anni di vita, antecedenti la scuola. È lì che la lotteria iniqua della natura può essere almeno in parte riequilibrata, se si assicura a ogni neonato un ambiente accogliente, accudente e stimolante. Viviamo in un mondo imperfetto, certo, l’ideale è sempre irraggiungibile e dobbiamo accontentarci di fare almeno qualche passo avanti. Ma dovremmo essere guidati da un traguardo eccellente e condivisibile quando facciamo teoria da tradurre poi in pratica. Sul merito, dunque, non si può che auspicare un dibattito più informato e meno ideologico. Ne avremmo tutti da guadagnare.