Ci sono due modi per pensare alla presenza della cultura nella società. Il primo è quello della pianta di casa, intesa come fico beniamino o qualcosa del genere. Si affitta un appartamento così come capita, lo si arreda alla bell’e meglio, puntando sulla praticità, ma alla fine il sentimento di bruttezza prevale, e allora si prova a rimediare con un salto al vivaio più vicino. È la cultura ridotta a ornamento, concepita come qualcosa che viene all’ultimo, dopo che il resto – quel che conta – è stato sistemato. Non c’è da stupirsi se a una cultura simile si rinuncia volentieri, specie in tempi di crisi.
Anche l’altra idea ha a che vedere con la pianta di casa. Questa volta però ci riferiamo alla planimetria del luogo dove speriamo di essere felici, ma dove – lo sappiamo in partenza, inutile illuderci – il dolore verrà comunque a visitarci. Non sono soltanto muri e pavimenti, siamo noi stessi che troviamo dimora. Per questo motivo, ogni dettaglio dev’essere valutato per tempo, partendo da ciò che è più importante. La cultura disegna gli spazi, segna il confine tra la condivisione e il segreto. Non è un ideale astratto; è, al contrario, quanto di più concreto l’essere umano possa sperimentare. A una cultura così non si rinuncia, perché è con una cultura così si conosce il mondo, lo si scopre, lo si costruisce.
Da venticinque anni a questa parte, il Salone del Libro di Torino racconta di questo dissidio. Di solito al Lingotto la cultura viene prima di tutto, anche se è capitato – e magari capiterà ancora – che la tentazione dell’ornamento finisse per prevalere. Lo ha ricordato anche il grande critico Ezio Raimondi, nel discorso pronunciato l’altro giorno nel momento in cui "Avvenire" gli attribuiva il premio Bonura: non si legge per svago, si legge per avvicinarsi un po’ di più al senso nascosto delle cose. Ma è chiaro che, se si presta fede agli incantatori del "leggi che ti passa", il bisogno di misurarsi con i libri presto o tardi svanisce. I dati Nielsen/Aie di cui si discute in questi giorni al Salone non si limitano a confermare la drammatica caduta del mercato librario (perdita del 3,5% a fine 2012, acuita dal meno 11,8% del primo trimestre dell’anno in corso). L’elemento più sconfortante, a ben vedere, è costituito dal crollo del comparto editoriale che più di ogni altro dovrebbe richiamare i lettori in una stagione tanto segnata dalla complessità e dalla necessità di comprendere. È la saggistica a segnare il passo, con una diminuzione del 18,9%. Sarebbero i libri nei quali cercare un principio di risposta. Sono, purtroppo, i primi a essere accantonati.
In questo, la contingenza con la cosiddetta "Primavera digitale", che il Salone 2012 ha voluto nel motto, appare ancora più significativa. Come genere di conforto, o come strumento di distrazione consapevole, il libro non può reggere il confronto con i media di nuova generazione, più versatili e accattivanti. Su questo piano non si discute, la battaglia è persa in partenza. Non per niente, anche i libri per ragazzi risultano in calo (meno 8,5%), e questo davvero non era mai accaduto. Anziché rincorrere la multimedialità, il percorso da seguire sarebbe l’opposto: aiutare i nuovi venuti a scoprire se stessi, attribuendo loro quella profondità che, al momento, non hanno conseguito. Troppo tardi? Non è detto. Il libro può ancora farcela, ma deve avere il coraggio di rivendicare la propria inattualità, il suo essere arrivato per primo. Meglio: la sua vocazione ad arrivare prima, com’è nel destino della cultura autentica. La pianta di casa, il tracciato della strada, la mappa della città. Nella quale devono trovare posto anche parchi e viali alberati. Purché progettati prima e non costruiti dopo, magari radendo al suolo quartieri interi.