Il campanile della torre civica di Amatrice che segna le 3.36, è un’immagine forte per dire che cosa è accaduto nella notte tra il 23 e il 24 agosto 2016. Quel minuto è stato l’ultimo minuto per le tante vittime di un devastante terremoto, sarà un minuto ricordato per sempre perché inciso nella carne e nel cuore dei famigliari, e sarà ricordato dal nostro Paese, la cui storia recente è anche una serie di orologi fermati per sempre dalla violenza degli uomini o da quella della terra. Anch’io lo ricorderò per sempre, perché questo urlo della terra ha raggiunto anche la casa dei miei genitori di Roccafluvione, a una ventina di chilometri da Arquata del Tronto, dove mi trovavo per visitarli. Una lunga notte di paura, di dolore, di pensieri per Amatrice, Arquata, Accumoli, paesi della mia infanzia, vicino ai paesi dei miei nonni, borghi dove nelle estati accompagnavo mio padre che lì lavorava come venditore ambulante di polli. E poi ancora pensieri, pensieri che non facciamo mai, perché si possono fare solo nelle notti tremende. Pensavo che quel tempo misurato fino alle 3.36 dall’orologio del campanile, che era lì bloccato, morto, era solo una dimensione del tempo, quella che i greci chiamavano
kronos, e che era appena la superficie, il suolo del tempo.
Nel mondo c’è il nostro tempo gestito, addomesticato, costruito, usato per vivere. Ma al di sotto c’è un altro tempo: è il tempo della terra. Questo tempo non-umano, a volte dis-umano, comanda il tempo degli uomini, delle mamme, dei bambini. E pensavo che non siamo noi i padroni di questo tempo altro, più profondo, abissale, primitivo, che non segue il nostro passo, a volte è contro i passi di chi gli cammina sopra. E quando, in queste notti tremende, avvertiamo quel tempo diverso sul quale noi camminiamo e costruiamo la nostra casa, nasce tutta nuova la certezza di essere erba del campo, bagnata e nutrita dal cielo, ma anche inghiottita dalla terra. La terra, quella vera e non quella romantica e ingenua delle ideologie, è assieme madre e matrigna. L’humus genera l’homo ma lo fa anche tornare polvere, a volte bene e nel momento propizio, ma altre volte male, troppo presto, con troppo dolore. L’umanesimo biblico lo sa molto bene, e per questo ha lottato molto contro i culti pagani dei popoli vicini che volevano fare della terra e della natura una divinità: la forza della terra ha sempre affascinato gli uomini che hanno cercare di comprarla con magia e sacrifici. E così, mentre cercavo, invano, di riprendere sonno, pensavo ai libri belli e tremendi di Giobbe e di Qohelet, che forse si capiscono di più durante notti così. Quei libri ci dicono che nessun Dio, nemmeno l’unico e vero Dio di Gesù Cristo, può controllare la terra, perché anche Lui, una volta che entra nella storia umana, è 'vittima' della misteriosa libertà della Sua creazione. L’Onnipotente e Onnisciente, che oggi guarda la terra delle tre A (Arquata, Accumoli, Amatrice), si fa le stesse nostre domande e può solo può gridare, tacere, piangere insieme a noi. Ci ricorda con le parole della Bibbia che
tutto è vanità delle vanità: tutto è soffio, vento, nebbia, spreco, nulla, effimero.
Vanità in ebraico si scrive
Habel, la stessa parola di Abele, il fratello ucciso da Caino.
Tutto è vanità, tutto è un infinito Abele: il mondo è pieno di vittime. Questo lo possiamo sapere. Lo sappiamo, lo dimentichiamo troppo spesso. Queste notti e questi giorni tremendi ce lo fanno ricordare. Ci spronano sulla via di salvezza.