Denaro e voti vanno da sempre a braccetto nel sistema elettorale americano. Fa parte della cultura popolare la credenza che Joseph Kennedy, non sapendo più cosa regalare al figlio John, gli avesse comprato la Casa Bianca. Ancor prima, nel 1895, il senatore americano Mark Hanna passò alla storia per la risposta data a un giornalista: «Ci sono due cose importanti in politica. La prima sono i soldi, la seconda non me la ricordo».
Ma quando si parla di contributi elettorali in America, come per le autostrade e gli hamburger supersize, le proporzioni sono gigantesche. I milioni che già confluivano nelle tasche di aspiranti deputati, senatori e presidenti statunitensi sono diventati centinaia a partire dal 2010, quando la Corte Suprema ha tolto ogni limite ai versamenti che un’azienda può fare a un candidato, dietro il sottile velo dei “comitati d’azione”, i Pac. O super-Pac, come sono chiamati ora che gestiscono budget superiori a quelli di molti Paesi.
Poi è arrivato Elon Musk. Che l’uomo più ricco della Terra voglia dire la sua nell’elezione del prossimo presidente degli Stati Uniti non sorprende. Soprattutto se si considera che l’introito principale del suo impero aziendale proviene dagli appalti del governo americano. Solo lo scorso anno, Musk ha incassato 3 miliardi (sì, miliardi) di dollari attraverso 100 diversi contratti federali.
Donald Trump ha promesso al padre della Tesla che, se sarà eletto, lo nominerà capo di una nuova authority per l’efficienza della spesa pubblica, responsabile di stabilire le regole su come e dove le agenzie federali usano i soldi dei contribuenti. Musk si troverebbe a scrivere le regole degli appalti ai quali le sue aziende parteciperanno.
È chiaro che per il padrone di X, “donare” valanghe di denaro alla campagna elettorale del repubblicano non è un regalo. È un investimento intelligente, che potrà fruttargli miliardi di dollari.
Quello che stupisce di più, in questi giorni, è quanto sfacciato sia diventato il “do ut des” fra il miliardario e Trump. Musk ha cominciato a pagare non solo il candidato, ma direttamente i suoi potenziali elettori. Qualche decina di dollari, a seconda di quanto il proprio Stato di provenienza sia importante per l’esito del voto, a chiunque firmi una petizione che difende le libertà di parola e di possedere un’arma. E un milione a un fortunato estratto a sorte, uno al giorno fino all’election day del 5 novembre.
Sfacciataggine, dicevamo, che ha sollevato le battute dei comici negli show di tarda serata - fanno notare come il Pac finanziato da Musk abbia lanciato un’indagine contro apparenti tentativi di “interferenza elettorale” da parte dei democratici - e qualche sopracciglio da parte dei giuristi che si interrogano sulla legalità della mossa. Tutto qui. Alcuni commentatori televisivi appaiono persino sollevati dalla “trasparenza” del gesto, che almeno, dicono, viene fatto alla luce del giorno.
Alla luce del giorno il controllo del Paese più influente del pianeta è stato messo all’asta e verrà deciso dal più alto offerente. In piena trasparenza, i cittadini americani, dopo aver venduto per due spiccioli (uno sconticino qui, un abbonamento gratis là) i loro dati personali, hanno cominciato a cedere il loro voto per 47 dollari, 100 se hanno la fortuna di vivere nella decisiva Pennsylvania.
Se non stupisce che Musk ci provi, stupisce quanto sembri tutto assolutamente normale. Forse 15 anni di contributi multimilionari ai candidati hanno svuotato di significato il gesto del voto. Forse l’era di YouTube e degli influencer ci ha insegnato a monetizzare tutto quello che possiamo, dai follower alla – perché no – preferenza elettorale. Ma la sensazione fastidiosa di queste ore è che senza fanfara gli Usa abbiano superato la soglia che separa la democrazia da qualcosa di infinitamente più infido. Il dizionario la chiama oligarchia.