martedì 14 agosto 2012
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Doveva essere l’agosto della speculazione, di una nuova crisi degli spread e dell’attacco finale alle Borse, ai titoli del debito italiano e in definitiva all’euro. L’estate è ancora lunga e l’esperienza consiglia di mantenere le dita bene incrociate – soprattutto dopo l’indiscrezione circa il possibile rinvio della decisione sul fondo Salva Stati da parte della Corte Costituzionale tedesca – ma al momento quello in cui il nostro Paese si trova immerso è un problema molto "old economy". Acciaio e aerei. L’Ilva di Taranto e il vettore aereo Windjet. Aggiungiamo l’auto, con la Fiat che ha due stabilimenti in bilico, e il piatto è completo.Se il differenziale col bund tedesco resta una questione serissima e niente affatto risolta, sul quale il governo fa bene a mantenere alta l’attenzione, questo agosto ci sta di fatto catapultando nella palude di un altro spread tutto italiano, quello "storico" della politica industriale, della capacità anche manageriale di gestire attività imprenditoriali, di attirare capitali e mantenere attività produttive. Ma anche della cultura necessaria a conciliare sviluppo e ambiente o, come si dice in questi giorni, lavoro e salute. L’emergere di questi nuovi problemi, fatalisticamente, sembra volerci ricordare che l’origine di tanti mali, da quelli relativi alla finanza pubblica fino ai guai delle imprese, non nascono ieri e non sono così isolati come possono apparire. Il rischio di deindustrializzazione, come quello del default dello Stato o della colonizzazione straniera sono in fin dei conti figli di un unico deficit Paese. Il "rosso" della responsabilità e della capacità di guardare oltre l’oggi e lo stretto interesse immediato o personale.Quella dell’Ilva è una crisi vera, non è solo un cortocircuito giudiziario-politico come si sta purtroppo delineando e come inevitabilmente finisce per ridursi in Italia ogni grande questione. In questo senso gli automatismi che scattano nelle analisi dei problemi da parte degli attori sulla scena assumono contorni desolanti, persino imbarazzanti nel momento in cui arrivano ad assomigliare a dispute tra tifosi di calcio, non tra sportivi. Politica, giudici, difensori dei diritti dei più deboli o dei più forti: parti e ruoli, nella difesa delle posizioni, possono invertirsi a seconda della circostanza, ma il risultato è quasi sempre il blackout della ragione. E come per altri casi analoghi, dietro la cortina fumogena che viene alzata, si nasconde molto spesso qualche decennio di errori, omissioni, silenzi, latitanze istituzionali, deficit di programmazione. La Crisi, insomma.Il caso Windjet, la compagnia aerea che lascerà a terra 300mila passeggeri in pieno agosto, può sembrare una vicenda completamente diversa, collegata solo dal filo dell’acciaio. Eppure mentre tutti mantenevamo lo sguardo sull’andamento quotidiano dello spread, anche questa è arrivata a ricordarci quanto sia stata fragile la politica più generale dei trasporti in Italia, e debole la struttura che promuove e supporta il turismo, soprattutto al Sud. O, ancora, come sia critica per molte imprese la dimensione dei capitali disponibili e la capacità manageriale di chi li gestisce. Quanto sta accadendo può se non altro aiutarci a ricordare che la tenuta finanziaria del Paese non è scollegata dal suo presente e dal suo futuro industriale. Allo stesso modo con cui stiamo (lentamente) imparando a fare autocritica per le mancate riforme e l’allegra gestione della cassa comune negli anni passati, forse occorre ripensare serenamente – tutti, forze politiche, sociali, sindacali – anche a quante e quali responsabilità possiamo attribuirci per il modo in cui l’Italia ha affrontato questioni decisive come la politica per l’industria, i nodi energetici, ambientali e del trasporto, le privatizzazioni. O la costruzione di condizioni di reale competitività per le imprese, proprio per evitare che periodicamente qualcuno debba trovarsi a dover scegliere tra un impiego o il nulla, tra un posto o l’assistenza social-previdenziale, tra la salute e il lavoro. Quella che va respinta con forza, rompendo la prassi, è l’immagine di un Paese di guelfi e ghibellini, che resta a terra per le troppe urla, e non riparte più.
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