martedì 27 agosto 2024
Dal 1988 a oggi, tra provetta e surrogata, si è avverata la previsione del biologo Testart: «Ciò che è possibile accadrà... »
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Le strade di Milano erano silenziose, era il giorno di Ognissanti. Nello studio medico nel centro della città la sala d’attesa era affollata: donne eleganti, sui quaranta, curate, scarpe e borse “giuste”. Mi stupiva che nonostante il Ponte dei Morti tante signore fossero rimaste in città, e attendessero, pazienti. Sfogliavano riviste femminili senza leggerle davvero, con una linea di apprensione sulla fronte che si faceva ormai una prima ruga. Unghie smaltate perfette, piglio da manager, da professioniste abituate a comandare. Avevano dieci anni più di me, erano le sessantottine che, passata la rivolta, si erano date anime e corpo al lavoro. Corpo, appunto: era la generazione che apertamente per prima vissuto la fecondità come un dovere, o addirittura una condanna, e aveva invocato l’aborto come diritto.

Ma poi la vita va, imprevedibile, e magari un giorno si scopre, prossime alla menopausa, che lo si vorrebbe, finalmente, un bambino. Pare una cosa facile: basta sospendere la pillola. Invece no, il bambino non arriva. Si annuncia, magari, e poi svanisce al secondo mese, lasciandosi dietro un’aura di densa malinconia. E così quelle professioniste bussavano alla porta di un giovane ginecologo, diventato famoso per avere reso madre una donna con la tecnica dell’ovum transfert. Una faccenda arrischiata: la sorella di una paziente aveva concepito con inseminazione artificiale nel suo grembo, poi l’embrione era stato trasferito nella madre “vera”. Titoli su tutti i giornali. 35 % di successi, vantava quel medico - cioè 65% di tentativi finiti in un aborto.

Ma, era appena il 1988: in Gran Bretagna Louise Brown, la prima concepita in provetta, aveva già dieci anni, in Italia invece si era agli albori della procreazione assistita. L’allora vescovo di Ravenna Ersilio Tonini ne era molto preoccupato, e mi aveva chiesto di scriverne per “Avvenire”. Ed eccomi davanti al giovane dottore, tipo rampante, sorriso da vincente. Mentre chiude una telefonata noto, sotto a una mensola, dei barilotti di acciaio, simili nella forma a certi potenti aspirapolvere. “Cosa sono?”, domando incuriosita. “Contenitori per embrioni congelati”, risponde il medico, tranquillo. Cioè, chiedo, lì dentro ci sono embrioni ai primi stadi, prodotti in vitro e stivati in attesa che i genitori eventualmente li richiedano? Sorride il giovane dottore della mia meraviglia: «Guardi che sono solo 4 cellule, mica bambini che strillano».

Questo fu l’inizio della mia inchiesta. Non ho dimenticato quei contenitori colmi di azoto liquido, severamente sottozero, in cui, irrigidite, giacevano minuscole vite potenziali. Sarebbero uomini oggi quei figli - ma dubito ne siano nati molti. Le percentuali di successo della provetta in quegli anni erano basse. E poi, per lo più, quegli embrioni i genitori non li avrebbero mai ritirati. Mi chiesi che sarebbe avvenuto in un black-out, e se c’era un generatore autonomo pronto a tenere in vita le “4 cellule”. C’era, mi assicurò il medico con noncuranza. Speriamo, mi dissi io, con la sensazione di essere piombata in un nuovo Far West. Dove la vita veniva afferrata, trapiantata, posseduta.

Agli inizi della procreazione assistita, poteva accadere che in una donna cominciassero a svilupparsi sei, sette embrioni. Lo si faceva, anzi, apposta, come si acquistano più biglietti di una lotteria, sperando che almeno uno vinca. Ma sei, poi, naturalmente, erano troppi. Allora si procedeva alla “selezione delle camere”, espressione polite che indicava l’aborto selettivo: gli embrioni di troppo, eliminati. Se ne lasciavano due, i più sviluppati. Poteva accadere alla fine dunque di avere uno o due figli, sapendo di averne eliminato altri quattro, a quei due molto simili. E io mi chiedevo come, nel tempo, una donna avrebbe retto quel tormento: quei tre mai venuti al mondo, uguali ai figli ora tanto amati.

Ma nell’alba italiana del Mondo Nuovo, senza alcuna regola fino alla legge 40 del 2004, la dimensione psicologica e umana della maternità pareva ignorata. Le “4 cellule” erano, agli occhi di una nuova generazione di medici, materia, bulloni. Da stivare, impiantare, eliminare se nessuno li voleva più. Mancava in certi medici, allora per lo più uomini, qualsiasi rispetto o stupore per la vita. Erano cresciuti nell’aborto come abitudine - mezza giornata di aborti ogni settimana, in ospedale. La mentalità abortista aveva aperto la strada a ciò che sarebbe venuto anni avanti: utero in affitto, selezione degli embrioni. Figli concepiti all’estero, in provetta, grazie a un’ovodonatrice povera, per poche centinaia di euro, e poi spediti, congelati nell’azoto liquido, in aereo, ai commissionanti.

Cose che mi facevano pensare al sinistro Mondo Nuovo di Aldous Huxley, ai bambini concepiti in bottiglia, in stabilimenti industriali. Avevo trent’anni allora, non ero sposata, e non ero esente dal timore di finire, quarantenne, in una sala d’attesa come quella, quando il mio tempo biologico fosse scaduto. Comprendevo quelle donne che, nella corsa alla carriera e alla “realizzazione “ di sé, troppo tardi si erano ricordate che volevano un figlio. Una mancanza struggente doveva essere, e potevo capire i disperati tentativi di averlo, quel figlio – in qualsiasi modo.

Non altrettanta comprensione avevo per i medici che, sapientemente diffondendo i loro primi successi sui media, cavalcavano e si arricchivano in quel Far West. A Bologna ne incontrai uno, un luminare. Bonario, a prima vista, lo sguardo freddo però sotto agli occhialini metallici; e ad ogni domanda inavvertitamente si rinserrava nel suo camice bianco, come in una corazza. Quel primario era finito sui giornali per un esperimento estremo: aveva impiantato degli embrioni ai primissimi stadi in altrettanti uteri asportati a donne malate, uteri riscaldati e nutriti artificialmente. E, incredibile, uno degli embrioni era caduto nell’inganno: aveva preso a svilupparsi, prima, ovviamente, di morire.

L’esperimento mi pareva agghiacciante: la vite aveva attecchito nella morte, il “grumo di cellule” si era illuso di essere nel seno di una madre. Mi immaginavo gli indicibili scambi chimici, le domande dalla creatura viva a quel grembo morto. Una cosa spaventevole. Ma interrogavo al professore, insistevo, e quello non si scomponeva, come se il suo esperimento – che fuori dall’Italia sarebbe stato vietato – fosse davvero “Scienza”, e non una bravata da Frankestein.

Ad ogni domanda il medico si stringeva in quel suo camice. Ma infine, chiesi, professore, «quando ha visto che l’embrione cominciava a riprodursi, cosa ha provato?». Una scintilla finalmente in quegli occhi. «Confesso – disse – che l’avere fatto una cosa che nessuno aveva mai osato, l’essere stato il primo, mi ha emozionato». Orgoglio quindi, anzi hybris, e smodata: mettere la vita nelle mani della morte. E tutto questo a Bologna, nella placida pianura emiliana di cui era originario anche mio padre, dove ancora trent’anni prima i figli nascevano in casa, nelle cascine, come sempre era avvenuto. La Scienza aveva messo le mani sulla vita, con prepotenza. E quei principi di uomo erano ormai “roba” da manipolare. «Ciò che è possibile, accadrà», aveva profetizzato Jacques Testart, pioniere francese della provetta, poi pentitosi.

In effetti, l’utero in affitto in diversi Paesi è legale, la selezione per sesso o l’eugenetica sono in alcuni Paesi praticate. La Advanced Cell Technology del Massachusetts nel 2021 ha annunciato di avere clonato sei embrioni umani, sospendendone poi lo sviluppo, e, ha dichiarato, «solo a fini terapeutici», cioè di ottenere cellule per la sperimentazione. Per ora. Poi, chissà. Pensavo, quel giorno di Ognissanti a Milano, ai cloni-replicanti di Ridley Scott in Blade Runner. L’avevo visto a 24 anni ed ero uscita dalla sala turbata- tuttavia certa che fosse fantascienza pensare di riprodurre l’uomo. Ma nel 1996 la pecora Dolly in Gran Bretagna sarebbe stata clonata, e avrebbe vissuto a lungo. Un mammifero. Oggi, negli Usa e in Asia, c’è chi fa clonare il proprio cane. «Ciò che è possibile accadrà...»: Testart, ancora. E cosa avevano perso le donne, mi dicevo in quella lontana inchiesta, lasciando a disposizione di chiunque il tesoro della fecondità. Che furto, che impoverimento. Ma, mi pareva, non se ne accorgeva quasi nessuno - e nessuna.

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