«Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Mai come oggi, nella tribolazione scandita dal grave fenomeno recessivo, sia sul piano materiale, ma, soprattutto, spirituale, avvertiamo un po’ tutti il bisogno istintivo di fare tesoro di questo messaggio, all’insegna della speranza, con cui si apriva la
Gaudium et Spes (1), la Costituzione pastorale sulla Chiesa e sul mondo, uno dei documenti cardine del Concilio Vaticano II. I 50 anni trascorsi dall’inizio dei lavori delle assise conciliari e l’indizione dell’Anno della Fede, da parte di Benedetto XVI, costituiscono le ragioni di un rinnovato impegno per annunciare e testimoniare la Buona Notizia, in un mondo che ha fame e sete di Dio. E, sebbene, la Barca di Pietro debba fronteggiare, in questo primo segmento del Terzo Millennio, le onde di un mare in tempesta, corrugato dall’umana fragilità, è proprio ripartendo dall’assunzione del mandato missionario che è possibile riscoprire la propria identità cristiana e tracciare con consapevolezza la rotta.Come leggiamo, infatti, nell’altro grande decreto conciliare, l’
Ad Gentes, «l’attività missionaria scaturisce direttamente dalla natura stessa della Chiesa: essa ne diffonde la fede salvatrice, ne realizza l’unità cattolica diffondendola, si regge sulla sua apostolicità, mette in opera il senso collegiale della sua gerarchia, testimonia infine, diffonde e promuove la sua santità» (6). Ecco che allora, l’odierna Giornata missionaria mondiale rappresenta il momento propizio per fare memoria di un impegno che coinvolge ogni comunità cristiana e ogni singolo battezzato.Lo slogan scelto da
Missio, l’organismo pastorale della Conferenza episcopale italiana preposto all’animazione missionaria, è davvero la metafora di un ideale irrinunciabile per chiunque s’impegni a seguire Cristo sulle strade del mondo: «Ho creduto, perciò ho parlato» (2 Cor. 4,13). Le parole dell’apostolo Paolo esprimono l’esigenza di dare senso e significato a una comunicazione verace, davvero capace di scuotere le coscienze. E se da una parte, spesso assistiamo a una banalizzazione della religione per la scarsa testimonianza delle tradizionali agenzie educative, dalla famiglia alla scuola, passando per le nostre stesse comunità, dall’altra occorre esprimere un sussulto di missionarietà, nella consapevolezza che, come scriveva il beato Giovanni Paolo II, «la fede si rafforza donandola!». Essa, infatti, spiegava, «rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni». Come credenti, perciò, abbiamo l’obbligo morale di parlare. Sappiamo molto bene che stando silenti, defilandoci dall’Agorà, assumendo un profilo innocuo di fronte alle sfide imposte dalla globalizzazione, non si hanno noie. Ma è lo stesso Paolo a rammentarci che non è consentito tacere perché è in gioco la Verità. Un concetto ben espresso nella Lettera agli Efesini: «
Veritatem facientes in caritate» (4, 15).Sperimentare la verità nella carità (o meglio: l’annuncio della verità si realizza nella carità) come ricorda proprio Benedetto XVI nell’enciclica
Caritas in veritate. Sì, proprio come fanno i nostri missionari e missionarie, disseminati nei cinque continenti, in cui la comunicazione è fatta sempre e comunque di gesti solidali che precedono le parole. Essi stessi, con le loro comunità, spesso pagano un prezzo altissimo per la loro fede in Gesù Cristo, denunciando ingiustizie e sopraffazioni. È la logica delle Beatitudini, del mondo capovolto di Dio (Lc 1,52) che «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili».