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Le radici ambientali della crisi sanitaria che sta colpendo l’umanità Salvare l’umanità. A rischiare l’estinzione non sono solo la fauna, la flora, o il pianeta. Senza l’uomo, come vediamo nelle nostre città, la natura riprende vigorosamente vita. E spazio. Invece, siamo noi umani le prime vittime dell’Antropocene: oggi, tutti. È il monito più significativo che risuona dal fragore dell’attuale pandemia: salviamo l’umanità, proteggendo la biodiversità. Non è uno slogan naive, non è retorica buonista: è quanto affermano le principali organizzazioni intergovernative, insieme ad alcuni tra i maggiori scienziati al mondo.
La distruzione della biodiversità naturale ha provocato l’attuale pandemia e creerà le premesse per nuove emergenze virali a livello planetario. Il dissesto degli habitat naturali, la deforestazione, l’inquinamento antropico sono le principali concause della diffusione di virus come il Covid– 19, che assumono una portata pandemica a causa di un sistema socio–economico globalizzato i cui effetti distorti sono megalopoli sovrappopolate, dove negli slum le misere condizioni di vita dei singoli attentano a qualsiasi standard di salute collettiva. Il virus aerobico non si ferma davanti a protezioni economiche, né riconosce confini o standard sociali: chi ha di più, non ha recinti alti abbastanza per nascondersi. In una necessaria visione olistica di natura e umanità, preservare la biodiversità significa salvarci da nuove pandemie.
Come afferma la virologa Ilaria Capua, la crisi attuale nasce perché «tutto è collegato: abbiamo creato un sistema che è stato poco rispettoso dell’ambiente». Lo spiega sul New York Times, David Quammen, autore di “Spillover. Infezioni animali e la prossima pandemia umana” (2012), il primo ad anticipare la potenziale esplosione di una pandemia come quella di Covid–19: «Invadiamo foreste tropicali e paesaggi selvaggi, che ospitano così tante specie di animali e piante, e all’interno di quelle creature, così tanti virus sconosciuti. Tagliamo gli alberi; uccidiamo gli animali o li mettiamo in gabbia e li mandiamo ai mercati. Distruggiamo gli ecosistemi e liberiamo i virus dai loro ospiti naturali. Quando ciò accade, questi virus hanno bisogno di un nuovo ospite. Spesso, quell’ospite siamo noi».
Questo legame tra zoonosi come nel caso del Coronavirus e la questione ambientale è oggi messo in luce dalle principali organizzazioni intergovernative mondiali come l’Oms e le Nazioni Unite. E anche dal recente studio del Wwf “Malattie trasmissibili e cambiamento climatico” che ricorda come le principali epidemie degli ultimi anni – Ebola, Sars, Mers, influenza aviaria e suina o anche l’Hiv – siano di origine animale. La loro diffusione è generata dalla riduzione delle barriere naturali che per secoli hanno creato un argine al contagio. In sintesi: il sistema economico esige terra e risorse e quindi si procede con la deforestazione massiva; questa distruzione di biodiversità provoca il traffico di animali, che principalmente in Asia e in Africa comporta due effetti: specie selvatiche che scappano nelle zone urbane o che finiscono negli “wet market”. Da lì, questi potenziali ospiti virali possono arrivare a infettare gli esseri umani. Prima invece le grandi foreste, abitate da una ricchissima biodiversità, impedivano le trasmissioni tramite l’ “effetto diluizione”: i virus erano bloccati trovando molti ostacoli di propagazione in specie non recettive. Inoltre, la fauna selvatica esposta viva e macellata al momento nei “wet market” comporta un grande spargimento di sangue: un fatto altamente trasmissivo del virus da specie a specie. Anche per questo l’Onu ha chiesto di bandire a livello globale questi mercati.
Attenzione però: questi luoghi di scambio alimentare non esistono per vezzo culturale. La carne di animali selvatici, la cosiddetta “bushmeat”, è spesso consumata da persone povere. La loro scelta nasce dalla mancanza di altre risorse alimentari, così le persone che vivono nei Paesi in via di sviluppo si adattano a considerare come cibo animali che noi occidentali non mangeremmo mai. La propagazione di questi virus ha quindi anche ragioni socioeconomiche: il profitto derivante dalla devastazione degli habitat e l’estrema povertà di molte aree del pianeta. Tutto è interconnesso, come ha scritto papa Francesco nell’Enciclica Laudato si’: «Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio–ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo prendersi cura della natura».
Anche per la medicina tutelare la biodiversità implica proteggere l’umanità dalle pandemie. Philippe Grandcolas, direttore del Cnrs la più grande organizzazione di ricerca pubblica in Francia, non ha dubbi: «Oggi sappiamo che l’emergere di queste malattie infettive non è solo un problema medico ma corrisponde alla distruzione degli ambienti naturali. Disboschiamo, e ci mettiamo in contatto con animali selvatici scacciati dai loro habitat che diventano agenti infettivi e generano nuove catene trasmissive». Nel 2008, il professore britannico Kate Jones dell’University College di Londra ha identificato 335 malattie infettive emergenti a livello globale tra il 1940 e il 2004: il 60% di queste è originato dalla fauna selvatica. Con la deforestazione in Asia, Brasile e Africa, gli individui sono stati ampiamente esposti a questi nuovi rischi microbiologici. «L’aumento dell’impatto umano sugli ecosistemi spiega la crescita delle zoonosi», secondo Jones. E la Fao ricorda come siano scomparsi in 40 anni oltre 250 milioni di ettari di terra a causa della deforestazione: soprattutto foreste tropicali, ricche di biodiversità e quindi di microrganismi, così liberati come vettori virali.
Didier Sicard, uno dei più importanti medici e accademici francesi, ha condotto sulla rivista “L’Esprit” un’analisi approfondita della diffusione delle zoonosi in relazione alla distruzione della biodiversità: «Oggi quasi tutte le crisi sanitarie infettive sono di origine animale. La trasmissione all’uomo può avvenire in diversi modi. O distruggendo il tradizionale habitat animale, che espone al contagio gli esseri umani: è il caso dell’Hiv, della malattia di Lyme o dell’Ebola. O tramite animali selvatici, un contatto facilitato da mercati paralleli il più delle volte fraudolenti: è il caso di Sars 1 e ora 2 (il Coronavirus, ndr) o Mers. O ancora dalla concentrazione di animali domestici, come nel caso dell’influenza aviaria».
Secondo Sicard, gli interessi economici non sono sufficienti allo sviluppo di vaccini e anzi si contrappongono all’alterazione dei sistemi di allevamenti intensivi, di distribuzione alimentare o sfruttamento dei latifondi che potrebbero incidere positivamente sulle cause profonde delle pandemie virali. «Uno scenario di “catastrofe regolamentata” », secondo l’accademico transalpino. Che afferma come la scarsa convenienza economica abbia influito anche sulla mancata predisposizione di un vaccino potenzialmente utile contro il Covid–19: «L’umanità si sta abituando all’influenza stagionale: prima reagisce con preoccupazione alle notizie e poi si addormenta. L’esempio della Sars, un coronavirus rapidamente dimenticato, lo dimostra in modo sorprendente. Gli studi sui vaccini furono interrotti quando era già pronto un prototipo che avrebbe potuto essere adattato per far fronte all’attuale Covid–19, come avviene per gli adattamenti annuali dei vaccini antinfluenzali ».
Cosa fare quindi? Secondo il ministro dell’Ambiente tedesco Svenja Schulze la risposta è semplice: «La conservazione della natura a livello globale potrà evitare nuove pandemie». Come farlo? Basta prendere dalla natura solo ciò che serve. Come scrive Sicard: «Facciamo tutti parte di un essere vivente in equilibrio e lo distruggiamo con disprezzo per il nostro appetito verso un consumo illimitato. Contro questo atteggiamento non è l’intelligenza artificiale di cui abbiamo bisogno, ma l’intelligenza dell’umiltà». Il calo delle aree incontaminate genera un traffico di animali che in Asia e in Africa comporta due effetti: specie selvatiche che scappano nelle zone urbane o che finiscono nei “mercati umidi”. Favorendo i contagi La carne di animali selvatici è spesso consumata da persone povere. Coniugare ambiente e giustizia sociale La deforestazione del grande bacino amazzonico prosegue a ritmi altissimi