Che cosa cercano, quei due milioni di uomini e donne che da ieri si sono messi in cammino verso il Duomo di Torino? Vengono dall’Italia ma anche da molto lontano, da Paesi agli antipodi del mondo; vengono dall’Est scristianizzato e dall’Europa delle chiese vuote. Cosa cercano, dunque, in quel volto di uomo martirizzato, che rispecchia nelle sue ferite, con impressionante precisione, il racconto evangelico della Passione? "Turisti", li chiamava ieri un tg locale piemontese, e subito aggiungeva delle buone attese dei commercianti – quasi a intendere che anche questo sia spettacolo, e a spingere la folla sia prima di tutto la curiosità che circonda quella immagine misteriosa. Ma è una riduzione troppo semplice, che sa di materialismo usurato. Non corrisponde alla realtà delle facce viste ieri a Torino, ai primi pullmann delle parrocchie, alle parole dei più vecchi che ancora una volta, forse per l’ultima, ritornano a contemplare quel volto.Li guardi: gente di ogni età, ragazzi e professori, borghesi accanto a badanti filippine. Una moltitudine che sociologicamente sarebbe arduo definire. Forse, semplicemente immagine di una umanità in cui una esigenza radicale viene prima di ogni differenza. Vogliono vedere quel volto, segnato esattamente dalle spine, dai chiodi, dai flagelli patiti da Cristo. Duemila anni dopo una colonna di uomini si mette ancora in cammino, per vedere con i propri occhi, nel più umano dei bisogni. Vedere e confrontarsi in quei pochi istanti, contesi dagli altri che già dietro spingono, con una domanda antica di due millenni: chi era quell’uomo, e veramente era il figlio di Dio? Veramente ha sconfitto la morte, annunciando a noi che non moriremo per sempre?Pochi secondi a testa, e davanti alla Sindone nel silenzio una raffica di domande brucianti, incredule oppure commosse in una fede già provata e certa. Ma tutti, in modi diversi, e magari anche quelli che si dicono solo curiosi o lontani, sono venuti a cercare qualcosa, trascinati come in una corrente da una tensione il cui nome meno impreciso potrebbe essere, forse, nostalgia. Nostalgia che abita nel profondo di noi. Nostalgia di un Dio che ha fondato e impregna le nostre città d’Occidente, e le sue splendide cattedrali; ma di cui siamo in tanti dimentichi, di tutt’altro adoratori. Inconsapevoli pagani di ritorno, così che si attaglia anche a noi quella frase di Paolo all’Areopago: anche per tanti uomini di oggi Dio è il "dio ignoto" degli ateniesi.Ricerca, dubbio, o ansia di un’altra vita premono alle porte del Duomo di Torino. Insieme all’attesa commossa di chi crede, e attende da anni di potere vedere la Sindone. Per chi crede, che cos’è quel volto che come in uno "specchio", disse Giovanni Paolo II, descrive la Passione? È l’icona di un uomo martoriato e ucciso e sepolto, esattamente, in modo impressionante, come avvenne a Cristo. Come davvero si sia formata quella immagine, la scienza ancora non l’ha saputo spiegare. Ma a Torino innegabilmente oggi ognuno cerca e trova un volto di uomo. Di un uomo nato da donna, nato nella carne. A ricordarci, come scrive Benedetto XVI nell’incipit della "Deus caritas est", che all’inizio del cristianesimo non c’è una decisione etica o una idea, ma l’incontro con un evento, «con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte». A ricordarci che la nostra fede non è un insieme di valori morali e tanto meno un moralismo, come nei secoli è accaduto a volte di ridurla; ma è un uomo, Gesù Cristo, nato nella storia. E in due milioni andremo a vedere quel volto, quel corpo segnato dal flagello e dalle spine – sofferenza divina e umana e nostra, incisa in quelle ferite. Immagine di impotenza e di morte, che pure annuncia che la morte non ha vinto. Lo staremo a guardare, in pochi intensi istanti. Come domandando, tacitamente chiedendo di essere in realtà noi, da quel volto, guardati e abbracciati.