Poche settimane prima che venisse licenziata in Senato la legge delega per la Riforma del Terzo settore, alla Camera aveva concluso positivamente in prima lettura il suo iter la proposta di legge sul commercio equo e solidale (cees). Registrando tra l’altro un consenso larghissimo, quasi unanime: 282 i favorevoli e solo 4 i contrari nella votazione avvenuta il 3 marzo. Numerosi e rilevanti gli elementi che collegano le due normative, anche perché il commercio equo è una delle 'gambe' più importanti e forse più conosciute che muovono il mondo non profit. Curiosamente, entrambe condividono anche il fatto che dovranno nei prossimi mesi passare a un nuovo vaglio, rispettivamente della Camera e del Senato, per arrivare ad approvazione definitiva. Ma c’è una questione o, se si vuole, una domanda che per la legge sull’equo e solidale ha forse un peso specifico maggiore, poiché il testo definito dai deputati ha una componente di innovatività molto elevata, al punto da porre l’Italia nelle condizioni di segnare una strada nel settore a livello mondiale. E la domanda è la seguente: che
chance ha questa legge di incidere davvero, accelerandolo ulteriormente, sullo sviluppo del commercio equo e solidale in Italia, facendolo uscire da una situazione di sostanziale marginalità?
I 17 articoli della legge definiscono per la prima volta per il cees, dopo oltre una decina di leggi regionali che nell’ultima decade hanno riguardato la materia (la prima in Toscana nel 2005, l’ultima in Lombardia nel 2015), un quadro di riferimento nazionale. Disciplinandolo e mettendo in campo strumenti per la sua promozione. Il tutto a partire dal riconoscimento della 'funzione rilevante' (art. 1) del cees nella costruzione di un’economia partecipata, fondata sulla giustizia sociale, il rispetto dei diritti, la tutela degli ecosistemi. «La legge è un grande riconoscimento, oltre che del lavoro fatto in questi anni dal movimento del commercio equo e solidale, delle sue potenzialità in termini valoriali e di educazione ai consumi», dichiara
Alessandro Franceschini, presidente di Equo Garantito, l’associazione che raccoglie le organizzazioni italiane del cees e in collaborazione col quale la legge è stata elaborata. Il testo licenziato dai deputati richiama infatti fortemente la Carta dei criteri, la 'costituzione' che le organizzazioni italiane si sono date a fine anni 90 e che esprime i principi fondativi di questo modo d’intendere le relazioni commerciali: il pagamento di un prezzo equo ai produttori, la remunerazione adeguata dei lavoratori, il rispetto dei diritti sindacali e della dignità umana, l’attenzione all’impatto ambientale della produzione, la trasparenza e la continuità dei rapporti, il miglioramento delle condizioni di vita delle categorie più deboli.
I meriti della norma sono numerosi. Fra i principali vi è quello di definire che cosa debba intendersi per commercio equo e solidale, per accordo di commercio equo e solidale e per filiera integrale del commercio equo e solidale. Si stabilisce anche cosa s’intende per organizzazione del commercio equo e solidale (che dev’essere 'senza scopo di lucro', art. 3), per enti rappresentativi di tali organizzazioni e per enti di promozione del cees che operano attraverso la concessione in licenza di marchi conformi a standard internazionali e certificati da organismi accreditati. «La legge dice chi può scrivere 'commercio equo e solidale' sui prodotti – sottolinea ancora Franceschini –, mentre fino a oggi, marchi certificati a parte, di fatto poteva scriverlo chiunque. Ciò rappresenta un forte elemento di tutela, sia per i consumatori, sia per le stesse organizzazioni». Viene anche istituito l’Elenco nazionale del commercio equo e solidale, tenuto presso l’apposita Commissione istituita presso il ministero dello Sviluppo economico. E la Giornata nazionale del commercio equo, da celebrarsi annualmente. Un po’ come avvenuto nel settore del biologico a partire dagli anni 90, che con l’introduzione della legge si riducano i potenziali abusi o più semplicemente confusione e incertezze è uno degli aspetti che gli operatori del settore accolgono con maggiore favore. «La norma pone paletti che limitano lo spazio per i cosiddetti 'equofurbi', a chi vorrebbe magari posizionarsi sul mercato non rispettando determinati principi – dice
Giuseppe di Francesco, presidente di Fairtrade Italia, organizzazione che nel nostro Paese rappresenta Faitrade International e l’omonimo marchio di certificazione, il più noto al mondo nelle certificazioni etiche –. Si tenga presente che non c’è ancora una normazione comunitaria del commercio equo. Per cui, dando una fotografia complessiva del settore, la legge allo stesso tempo traccia una strada. E dà punti di riferimento per eventuali nuove regolamentazioni a livello regionale». Paradossalmente si potrebbe obiettare, in parte rispondendo anche alla domanda posta all’inizio, che il commercio equo e solidale poteva forse fare a meno di una legge. Perché anche negli anni della crisi ha continuato il suo percorso di sviluppo, tenendo botta meglio di altri settori.
Gli ultimi dati disponibili dicono che il commercio equo e solidale certificato genera vendite al consumo per quasi 6 miliardi di euro a livello mondiale (2014). E coinvolge oltre un milione e mezzo di piccoli produttori, soprattutto in Asia, America Latina e in Africa. Nel nostro Paese, il valore aggregato della produzione dei soci di Equo Garantito (84 organizzazioni, 256 punti vendita 'botteghe del mondo', quasi 33mila soci e oltre 5mila volontari) si aggira intorno agli 80 milioni di euro. Una realtà affermata, insomma. Però, ed è questo il punto, ancora di nicchia, se è vero che la spesa per prodotti equo e solidali degli italiani è ancora di pochi euro l’anno. Mentre in Paesi come la Svizzera raggiunge anche i 50 euro l’anno. È proprio sulla capacità di occupare i notevolissimi spazi ancora a disposizione, allora, che il cees è chiamato a giocare la sua partita. E la legge a testare davvero la sua efficacia. In quest’ottica, una leva determinante su cui agire è quella della comunicazione e della promozione, ambito nel quale di nuovo la legge interviene. Per
Giorgio Dal Fiume, responsabile Formazione soci in Ctm Altromercato, la maggiore organizzazione di commercio equo e solidale in Italia (114 soci, fatturato consolidato superiore ai 40 milioni di euro), «oltre alla formalizzazione del vincolo dell’assenza dello scopo di lucro in capo alle organizzazioni di commercio equo e solidale, cosa direi unica al mondo – afferma –, è importante nella legge la previsione di un milione di euro per la promozione e in particolare per le attività infoeducative collegate al cees. È un primo passo per adeguarci ai Paesi europei che stanziano fondi a favore del cees proprio perché è un’attività che promuove il bene comune e crea beneficio nei Paesi del Sud del mondo, collegandosi a temi come quello enorme dell’immigrazione». In questo senso la legge sostiene la diffusione del cees anche negli appalti pubblici, promuovendo l’utilizzo di prodotti e servizi del commercio equo e solidale nei propri acquisti, guardando in primis a servizi di ristorazione nella P.a. e mense scolastiche.
Alla generale soddisfazione si unisce anche
Rudi Dalvai, presidente di Wfto (Organizzazione Mondiale del commercio equo e solidale) e uno dei padri del commercio equo e solidale in Italia, che sottolinea l’importanza per il movimento del cees italiano di aver ottenuto questo risultato lavorando insieme. In prospettiva, però, Dalvai esprime anche qualche riserva, più che altro avvertenze sui prossimi passi da compiere: «Una legge così articolata – spiega – non c’è da nessun’altra parte, in questo l’Italia si è posta all’avanguardia. Ma proprio perché così articolata, e nella prospettiva che tutti auspichiamo di un cees sempre più importante, in diverse parti lascia spazio all’interpretazione. Per fare un esempio: la legge parla di prezzo equo, ma nel movimento cerchiamo di definirlo da trent’anni e ancora non ci siamo riusciti. Esiste cioè a mio avviso la possibilità che possa essere interpretata in modo anche molto diverso. E se gli interessi intorno al cees dovessero aumentare, c’è il rischio che si cerchi di influenzarne l’interpretazione. Se dovesse prevalere un’interpretazione troppo conservativa, burocratica, potrebbe risultare controproducente per le piccole organizzazioni e i piccoli produttori, mentre il cees è nato soprattutto per loro».