Nelle immagini sul web riprese da un soccorritore i cunicoli delle grotte di Tham Luang sono angusti e allagati di acqua livida. Color del fango, alla luce fredda delle torce. E bui come un luogo mai, in nessun tempo, sfiorato dal sole. Otto dei dodici ragazzini del Moo Pa, la squadra del Cinghiale, intrappolati lì sotto da 17 giorni, ieri sera ne erano usciti. Infilandosi in un tunnel a tratti sommerso, risalendone a forza di gambe, di braccia e di colpi di reni il tracciato irregolare, e in certi punti largo meno di 50 centimetri. Nell’oscurità totale, per ore, il respiro stentato, il cuore in affanno. Fino a un ancora lontano chiarore, là dove da un pertugio penetra, come un miraggio, un tenue riverbero della luce del giorno.
Fa pensare a un nascere questo emergere dalla terra dei ragazzi thailandesi. A un travaglio dal seno di una madre oscura. «Madre Terra», usiamo dire, ma laggiù in quelle grotte, dove gli ultimi quattro ragazzi e il loro allenatore stanotte aspettavano ancora, le viscere della terra sono petrose e stillanti acqua gelida. Nessun battito del cuore a rassicurare, a cullare, né il pulsare caldo del sangue.
Tuttavia quei ragazzi, rimasti prigionieri il 23 giugno, sono stati a lungo come in attesa, come in procinto di nascere. In un limbo, atrocemente incerti – e con loro, dilaniate, le loro famiglie – se da quell’ombra si accedesse alla vita, o alla morte. Desiderando, anelando la luce. Semplicemente la luce: come deve apparire meravigliosa, quando hai paura di non poterla rivedere più. Gli occhi sbarrati nel buio, le orecchie tese a ogni minimo rumore che sembrasse il passo di un soccorritore. Ma, solo acqua gocciante, e il fruscio dei pipistrelli che si insinuavano per nascoste fessure.
Il grembo di roccia non lasciava andare i ragazzi del Moo Pa. Quella madre degli inferi non voleva restituirli al mondo. Deve essere sembrato infinito il tempo laggiù, non scandito dal regolare alternarsi del giorno e della notte: un tempo senza limiti che, forse, sarebbe stato eterno. E che straordinaria nostalgia della famiglia, degli amici, della libertà di una corsa in un campo di pallone. Temendo di non tornare.
Ma, sopra, accorrevano i soccorsi, si vagliavano ipotesi, si accalcavano tecnici e sub, febbrili (e uno di loro è morto: sono generosi gli uomini, quando c’è da salvare ragazzi che hanno gli stessi occhi dei loro figli). Li hanno raggiunti, li hanno confortati, nutriti e addestrati. Hanno promesso loro: uscirete, mentre fuori molti disperavano.
Poi, l’inizio del travaglio. A uno a uno, su nel cunicolo angusto. Stretti e compressi proprio come bambini che stanno nascendo (ogni travaglio è doloroso, forse anche per il figlio, schiacciato, sospinto verso qualcosa di straniero e sconosciuto).
Forza, avanti, li avranno incoraggiati bruscamente i sub, quasi come fanno le ostetriche con le partorienti. Fino a quel barlume di luce, e a un sussulto d’inaudita speranza. Ai polmoni che si riempiono, a un grido che li svuota e lacera l’aria, nella gioia d’essere vivi. Sono nati di nuovo quei ragazzi in Thailandia, venuti alla luce di nuovo.
E perché il mondo intero ne parla, e noi, tanto lontani, per loro ci emozioniamo? Forse perché in fondo al cuore anche noi, magari senza saperlo, confusamente, sogniamo di nascere di nuovo. («Come può un uomo nascere quando è già vecchio? Può egli entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e nascere?», chiedeva, in una indicibile speranza, Nicodemo).