Per decenni, mattone dopo mattone, affare dopo affare, hanno costruito un legame di ferro. Tanto che, in molti, hanno visto nell’abbraccio tra Cina e Africa il rischio di uno stritolamento del continente e delle sue potenzialità di crescita. È un fatto che i due sistemi economici siano oggi sempre più compenetrati. Gli scambi commerciali hanno superato il miliardo di dollari nel 1990, dieci anni più tardi la quota era salita a 10 miliardi, nel 2011 a 150 miliardi. La crescita è stata vertiginosa: 198 miliardi nel 2012, 210 miliardi dollari nel 2013, ben 21 volte superiore a quello del 2000. L’obiettivo per il 2020, in accordo con la passione tutta cinese per la programmazione, è ambizioso: raggiungere la soglia dei 400 miliardi di dollari di scambi con l’Africa. In questo processo, il 2009 è considerato come una tappa simbolica, una sorta di spartiacque: è l’anno in cui Pechino ha strappato agli Stati Uniti lo scettro di primo partner commerciale del continente. Eppure oggi l’asse tra Cina e Africa mostra vistosi segni di cedimento. E la luna di miele potrebbe finire. Complice il rallentamento – ma c’è ci parla di vero e proprio “tonfo”– dell’economia del Dragone. Un dato in particolare fotografa le difficoltà che il gigante asiatico sta attraversando: a febbraio le esportazioni cinesi hanno fatto registrare un crollo del 20,6% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Il calo segue la performance, anche essa poco brillante, di gennaio: meno 6,6%. La stessa leadership del Paese ha dovuto prendere atto della situazione. Aprendo la scorsa settimana i lavori annuali del Congresso nazionale del Popolo chiamato ad approvare il piano quinquennale 201620 – il primo sotto la presidenza di Xi Jinping –, il premier Li Keqiang ha parlato apertamente di un Paese costretto «a fronteggiare maggiori e più difficili problemi e sfide nel suo sviluppo quest’anno», invitando «a essere pienamente preparati per combattere una battaglia difficile». Pechino ha quindi ufficializzato il taglio alle stime di crescita del Pil, previsto per quest’anno, portandole al 6,5-7%, contro il più 6,9% dello scorso anno che ha rappresentato il ritmo più lento degli ultimi 25 anni, mentre il deficit vola dal 2,3% al 3%, ai livelli più alti mai registrati. L'attivismo del Dragone in Africa è catturato dai numeri: sono 2.500 le imprese cinesi che hanno investito in Africa, l’investimento totale targato 'made in China' ha raggiunto quota 25 miliardi di dollari, negli ultimi dieci anni sono più di un milione i cinesi che hanno fatto le valigie per andare a lavorare in Africa. In totale sono 1.673 progetti cinesi in Africa, disseminati in 51 Paesi. L’attenzione del Dragone per il continente non è casuale, ma il frutto di una scelta strategica: saziare la fame di energia, procacciarsi la 'benzina' che ha consentito al motore del Dragone di inanellare una crescita spettacolare per almeno 30 anni. Pechino oggi è seconda solo agli Stati Uniti per il consumo di petrolio. Ma ancora per poco. Secondo il World Energy Outlook 2014, il Dragone supererà gli Stati Uniti nel 2030. Per la US Energy Information Administration (Eia), il Paese importerà oltre il 66 per cento di oro nero entro il 2020, il 72 per cento entro il 2040.Da dove arriva il petrolio che 'accende' l’industria cinese? Poco più della metà arriva dal Medio Oriente, (che detiene quasi il 62% delle riserve mondiali): 2,9 milioni di barili al giorno, pari al 52% del volume di petrolio importato dal gigante asiatico nel 2013. Al secondo posto, nella lista dei fornitori, si colloca proprio l’Africa: 1,3 milioni di barili al giorno, pari al 23% del totale. I maggiori fornitori sono l’Angola, la Guinea Equatoriale, la Nigeria, la Repubblica del Congo e il Sudan. Da parte sua la Cina esporta macchinari e mezzi di trasporto, apparecchiature di comunicazione, elettronica ai Paesi africani. Eppure qualcosa nel rapporto tra Africa e Cina sta cambiando. A rompere i vecchi equilibri, il profondo mutamento che ha investito l’economia cinese. Pechino, sotto l’urto della crisi mondiale, è stata costretta a 'correggere' il proprio modello di sviluppo, puntando sempre più sui consumi interni. Risultato: si è registrata una caduta delle esportazioni di materie prime dall’Africa. Di conseguenza la crescita del Continente nel 2015 ha subito una contrazione rispetto agli anni precedenti. Si è verificato anche un declino sul versante degli investimenti.Il numero di progetti registrati presso il Ministero cinese del Commercio è sceso da 311 nel 2014 a 260 nel 2015. Nel maggio 2015 il ministero ha stimato un calo del 45,9% dei flussi nel corso del primo trimestre del 2015. Ma non basta. Le valute dei Paesi africani che esportano verso la Cina, come Sudafrica (oro e vino), Angola (olio), e Zambia (rame) hanno subito pesanti 'perdite' dopo la mossa di Pechino per svalutare lo yuan. In molti Stati africani crescono così i dubbi sull’impatto che l’afflusso di merci cinesi e dell’esportazione delle risorse africane ha sull’economia del Continente. Il presidente sudafricano Jacob Zuma ha recentemente ammesso che «il modello che si è imposto nelle relazioni tra Africa e Cina è insostenibile nel lungo periodo». Le industrie africane sono spesso colpite dalle esportazioni cinesi. Il motivo? Le merci esportate in Africa hanno un prezzo troppo basso che finisce per 'affondare' i produttori locali. Questo a sua volta provoca la perdita di posti di lavoro.Ma non basta. A intaccare la supremazia cinese c’è un altro attore emergente che, come il Dragone, sta guardando con sempre maggiore interesse alle dinamiche dell’economia africana. Si tratta dell’altro gigante asiatico: l’India. Il commercio tra New Delhi e il Continente ha toccato quota 100 miliardi di dollari nel 2015, contro i 70 miliardi di dollari nel 2013. Un balzo enorme se si tiene presente che un decennio fa l’ammontare era appena di 5 miliardi di dollari. A favorire l’India rispetto alla Cina è l’approccio diverso. Mentre ad esempio Pechino ha sempre penalizzato la manodopera locale, l’India la privilegia. Un gruppo come Mahindra, che recentemente ha assorbito Pininfarina, si propone di assumere il 90% dei dipendenti sul mercato locale, con l’obiettivo di raggiungere quota 95%. Inoltre l’India gioca la carta della solidarietà. Un dato su tutti: nel solo Sud Sudan il Paese ha dispiegato 2.200 uomini nell’ambito della missione di pace delle Nazioni Unite (Unmiss), lo stesso numero di soldati che la Cina distribuisce in tutto il Continente. Pechino, insomma, è avvertita.