Il verbo «delegittimare» (ovvero «Privare di legittimità, sottrarre la legittimazione a esercitare una funzione o un potere ») non era presente in uno tra i più diffusi e autorevoli dizionari della lingua italiana almeno fino al 1988. È entrato nel linguaggio comune, in dosi via via più massicce, a partire dalla metà degli anni 90, contestualmente all’esplosione traumatica del conflitto tra politica e magistratura seguita a Tangentopoli (o, forse, dovremmo dire alla "prima Tangentopoli", viste le cronache giudiziarie degli ultimi mesi). Per amore di verità, sarebbe più giusto parlare di conflitto tra una parte della politica e una parte della magistratura. Comunque sia, da allora l’Associazione nazionale dei magistrati e, non di rado, consiglieri "laici" e togati del Consiglio superiore della magistratura, hanno gridato al rischio di «delegittimazione» delle toghe. Talvolta con evidente ragione, tal altra con altrettanto solare slancio corporativo.
Ciò non è accaduto nel caso di Francesco Iacoviello, il sostituto procuratore generale della Cassazione che la scorsa settimana ha chiesto e ottenuto dalla suprema Corte l’annullamento con rinvio, per vizio di motivazione, della sentenza di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa del senatore del Pdl Marcello Dell’Utri. Eppure Iacoviello, per quanto ha sostenuto nella sua appassionata requisitoria, è stato duramente attaccato. Non soltanto da ex-pm passati alla politica, ma anche da suoi colleghi tuttora in servizio, personalmente risentiti perché quella requisitoria mette in discussione un certo modo d’indagare e di giudicare. E sì che, a leggerla, non esclude affatto l’eventualità che l’indagato sia colpevole. Del resto, in Cassazione si discute dei processi sotto il profilo della legittimità e non del merito, come tutti sanno, tranne forse qualche nostro collega iscritto all’Ordine dei Giustizialisti, più che altro disturbato dal fatto che probabilmente, grazie alla prescrizione, il "nemico" la farà franca. Fatto sta che il sostituto pg è stato accusato perfino di avere oltraggiato la memoria di un martire civile come Giovanni Falcone. Ed è stato detto che in passato «per molto meno» il Csm ha deliberato sanzioni disciplinari. Può darsi. Di certo, anche in tempi recenti, per molto meno il Csm ha aperto pratiche «a tutela» del magistrato attaccato. Stavolta no. Stavolta è stato il procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito (quindi il capo dell’ufficio di Iacoviello), dal mese prossimo in pensione, a doversi spendere in difesa del collega. Lo ha fatto ieri mattina, proprio in apertura dei lavori del plenum del Consiglio superiore, chiedendosi se «la libertà di espressione possa estendersi fino al vilipendio del magistrato e se sia possibile tentare di condizionare l’esercizio della giurisdizione». È seguito un dibattito, nel quale tutti i gruppi hanno espresso solidarietà al sostituto pg. Ma nessuno ha sollecitato l’apertura di una pratica a sua tutela, cioè a tutela della sua autonomia e della sua indipendenza. E, di rimbalzo, di quelle dei giudici che, autonomamente e indipendentemente, hanno ritenuto valide le sue richieste. Più tardi, in compenso, il plenum è tornato a suonare l’allarme sull’indipendenza dell’ordine giudiziario tutto, che sarebbe messa a rischio dalla norma sulla responsabilità civile al vaglio del Parlamento.
Ancora una volta la cronaca fornisce un paio di elementi preziosi per un approccio più equilibrato, oseremmo dire più lucido, alle vicende giudiziarie che riguardano esponenti politici. Il primo è che sbagliano coloro che appiccicano etichette e colori alle toghe: il dottor Iacoviello proviene dal "Movimento per la Giustizia", una delle correnti storiche della sinistra giudiziaria; il fatto che un giudice abbia un’idea politica non vuol dire necessariamente che sia politicizzato. Il secondo è che nessun magistrato è meno "autonomo, indipendente e soggetto soltanto alla legge" di altri (magari mediaticamente dominanti).