Saldigna, colonya». Nelle molteplici varianti grafiche della lingua locale (
sa limba) capitava anni fa di leggere una scritta del genere sui muri dell’isola. Capita ancora in realtà, anche se oggi con minore frequenza perché la protesta – a parte i casi clamorosi di questi giorni – lascia spazio alla rassegnazione. Con 120 mila disoccupati su un milione e 600 mila abitanti, la Sardegna almeno un primato nazionale lo ha conquistato, quello dei senza lavoro: il 16,5 per cento, contro un dato italiano che sfiora l’11. Un record che un’isola allo stremo (non bastano il mito e i fasti della Costa Smeralda a rianimare l’economia) sarebbe pronta a cedere all’istante se solo dipendesse da lei, se le scelte politiche di un passato recente e meno recente non l’avessero confinata nel ruolo – appunto – di colonia, da sfruttare e da abbandonare infine a se stessa.Cominciò l’Italia unitaria radendo al suolo le sue foreste di querce per ricavarne traversine per le ferrovie in costruzione. Proseguì il fascismo che come illusorio antidoto alla depressione lanciò la moda dell’orbace, il tessuto tipico locale. La repubblica, negli anni del boom, ha inventato le cattedrali nel deserto di Ottana, la chimica e la petrolchimica, gli imprenditori (?) del continente accorsi a sfruttare la pioggia di denaro pubblico e poi rapidissimi a uscire di scena. Intanto la riforma agraria, il grande merito della Dc dei primi anni Cinquanta, non riusciva ad affrancare il mondo rurale dall’arretratezza e la mancata attuazione di quel principio tecnicamente chiamato della «continuità territoriale» nei trasporti faceva la sua parte.Ognuno la pensi come vuole, ma la crisi di oggi è figlia di tutto questo, di un modo di percepire l’isola come un territorio di conquista, di decisioni studiate a volte per favorire clientele, di miopia nelle individuazione di obiettivi strategici di sviluppo.Agricoltura, allevamento, turismo sostenibile, settore minerario: fosse stata aiutata a calare sul tavolo le carte di questo poker, la Sardegna sarebbe diversa. Invece gli allevatori sono sul piede di guerra: per il latte ovino incassano meno di 70 centesimi al litro, quando la benzina è a 2 euro e il gasolio per i macchinari segue a ruota. Invece gli operai dell’Alcoa (mille posti in ballo) si gettano in mare davanti ai traghetti esasperati dalla crisi infinita di un’azienda cui la politica improvvidamente fornì energia elettrica a prezzo di favore fingendo di ignorare che il nodo sarebbe arrivato al pettine e l’Ue avrebbe bocciato una misura che si configurava quale aiuto di Stato. Eurallumina, Portovesme srl e Carbosulcis sono gli altri fronti aperti del caso Sardegna, del quale perfino i media nazionali sembrano disinteressarsi salvo quando – come adesso – un gruppo di minatori si barrica per protesta nel pozzo di Nuraxi Figus, nell’Iglesiente, con il più importante dei ferri del mestiere, l’esplosivo.Sembra la riproduzione in fotocopia di tante occupazioni di miniere del passato, solo che stavolta la posta in gioco non è la difesa di un’azienda decotta o di un filone prossimo all’esaurimento. Il carbone del Sulcis non sarà di qualità eccelsa, ma con i moderni sistemi di depurazione dei fumi può essere proficuamente impiegato nella produzione di elettricità in luogo del certamente migliore ma più costoso carbone di importazione. È in gioco il futuro del maggior distretto minerario isolano, sono in gioco centinaia di posti di lavoro nelle miniere e fuori, è in gioco soprattutto la realizzazione di un progetto integrato d’avanguardia miniera-centrale elettrica-stoccaggio dell’anidride carbonica nel sottosuolo. Un progetto da 200 milioni che altri potrebbero copiare, un investimento che darebbe conferma della determinazione di voltare pagina nella politica industriale e della volontà di partire dal Sulcis e dalla Sardegna – la regione con il maggior tasso di disoccupazione – per aggredire l’emergenza nazionale dalla quale derivano tutte le altre, debito pubblico e spread compresi. L’emergenza che si chiama lavoro.