L’attentatore di Manchester, se le notizie della prima ora saranno confermate, era un giovane di appena 22 anni, figlio di rifugiati libici. Che al concerto di Ariana Grande ha fatto però strage di ragazzi e ragazze ancora più giovani di lui, molte ancora bambine, visto che una delle prime vittime identificate, Saffie Rose Roussos, aveva solo 8 anni e almeno 12 tra i 60 feriti gravi hanno meno di 16 anni. È l’orrore allo stato puro, al di là di qualunque immaginazione. Il cuore e la mente rifiutano di accettare l’idea che qualcuno possa mandare un ragazzo a uccidere ragazzi e distruggere famiglie per ideologia o, peggio, per fanatismo pseudoreligioso. Cosa che sarebbe appunto avvenuta se la rivendicazione del Daesh si rivelerà attendibile, come molti elementi (a partire dalla figura stessa del kamikaze e dall’impiego di un ordigno esplosivo artigianale) farebbero pensare.
Il Regno Unito aveva vissuto una tragedia di questa portata solo nel 2005, quando quattro diversi attacchi suicidi (tre nella metropolitana e uno su un autobus) avevano provocato oltre 50 morti. Due mesi fa, sul ponte di Westminster a Londra, un altro assassino aveva ucciso cinque persone scagliandosi su di loro con un’automobile e poi colpendo un poliziotto a coltellate, in un episodio drammatico ma di natura assai diversa rispetto a quello di Manchester.
La strategia del terrore islamista, quindi, alza ancora la posta e rinnova i suoi sanguinari propositi, a dispetto di una «guerra al terrore» che, pur durando da più di 16 anni (fu George Bush junior a proclamarla il 20 settembre del 2001, nove giorni dopo le Torri Gemelle) e avendo mobilitato le migliori energie di tutto il «mondo libero», non ha evidentemente segnato i punti decisivi.
L’orrore di Manchester, pertanto, contiene alcune lezioni che non dobbiamo assolutamente lasciare cadere. La prima è che rispetto al Daesh e alle sue stragi l’unico atteggiamento lecito è la più totale intransigenza. Non vi sono alleanze politiche, strategie o calcoli che tengano di fronte alla più profonda emergenza del nostro tempo e del prossimo futuro. Molti demografi ci spiegano che intorno al 2050, per la prima volta nella storia, il numero dei musulmani nel mondo si avvicinerà a quello dei cristiani. Una grande sfida. Forse una grande opportunità, a patto però che non permettiamo a questi manipoli di terroristi di dettare oggi la "qualità" delle relazioni di domani. Perché dietro ogni kamikaze ci sono migliaia di giovani che l’industria della predicazione estremista cerca senza sosta di indottrinare e arruolare in ogni parte del mondo.
A Londra come a Orlando (Florida), a Berlino come a Dacca, la capitale del Bangladesh dove nel luglio dell’anno scorso altri giovani votati al culto della morte assassinarono venti persone, tra le quali anche nove italiani. L’altra idea da recuperare davanti al massacro della Manchester Arena è che dobbiamo assolutamente fermare questa continua strage di giovanissimi e bambini. L’Europa resterà a lungo sotto lo choc di quanto è accaduto al concerto, ma molti non si renderanno conto che drammi come questo sono realtà quasi quotidiana per tanti popoli nemmeno tanto lontani da noi. In Siria, racconta l’Unicef, l’anno scorso sono stati uccisi almeno 652 bambini e altri 850 sono stati impiegati nei combattimenti.
In Afghanistan, secondo le Nazioni Unite, ogni settimana 53 bambini vengono uccisi o feriti. In Iraq, nel 2016, su oltre 16.300 vittime civili, oltre 800 (più del 12%) erano bambini, come testimonia Iraq Body Count. È la strage degli innocenti su scala industriale, in una quasi generale mancanza di reazioni emotive che sa di assuefazione. Il dolore di Manchester, che ci tocca così nel vivo e ci angoscia, qui e ora, per il futuro di figli e nipoti, può darci però anche lo slancio per un rinnovato impegno che sarà morale e politico insieme. Non va da nessuna parte un mondo che non riesce a correggersi e non sa proteggere i più piccoli. Qualunque progresso faccia, qualunque ricchezza ottenga.