Leave or Remain? Uscire dall’Europa, come tuonano gli euroscettici di Nigel Farage, il patron di Formula 1 Bernie Ecclestone, l’attore Michael Caine e a sorpresa perfino l’ex sindaco di Londra Boris Johnson (che due giorni fa ha clamorosamente affermato in un’intervista al
Sunday Telegraph che l’Unione Europea persegue un obiettivo simile a quello di Hitler nella creazione di un sovrastato europeo), o rimanere, come raccomandano il fisico Stephen Hawking e gli illustri “supporter” esterni Barack Obama e il Premio Nobel Paul Krugman? E perché restare? Solo perché, come ammonisce il premier David Cameron, «L’Europa rischia una guerra se la Gran Bretagna esce dall’Unione»? La mappa dello psicodramma britannico che toccherà il suo apice il 23 giugno prossimo è frastagliata e per molti versi difficile da decifrare. «La Scozia e buona parte dei londinesi sono contro la Brexit – dice una fonte Ocse – mentre l’ovest più depresso, il Galles, la Cornovaglia, il West Midland vorrebbero uscire».Risultato rilevato in questi ultimi giorni: vittoria dei
Remain di qualche misura – 46 a 43 – con buona pace degli scalmanati che vorrebbero rompere con l’Europa. Cameron stesso ha negoziato con successo a Bruxelles i capitoli più delicati della permanenza britannica nell’Unione Europea, in particolare quelli relativi ai flussi migratori: l’obiettivo era mettere un limite di quattro anni per l’ottenimento del diritto a sussidi economici dei migranti comunitari. Ma non basta: la paura dell’immigrato che ruba il posto agli onesti sudditi di Sua Maestà è contagiosa. Il fantasma del
plombier polonais, il famigerato idraulico polacco che lavorava a bassissimo costo e per questo mandò all’aria il referendum costituzionale in Francia e in Olanda cavalca ancora per le contrade d’Europa. «Ma la frattura vera – mi spiega il
private banker che osserva per ragioni professionali un rigido anonimato – è fra la pancia del Paese e la gente maggiormente
cultivate, ovvero fra chi è preso dal vortice della propaganda che punta sul rancore verso l’Europa e la grande paura dell’immigrazione su cui soffiano i partiti populisti e non solo loro e chi sa fare quattro conti». Quattro conti. Ecco, per una nazione di abili mercanti come quella inglese dovrebbe essere un gioco da ragazzi. I dati statistici ci ricordano che nel Regno Unito il tasso di disoccupazione arriva solo al 5,1% contro il 9% dell’Unione Europea, così come il Pil pro capite calcolato in euro britannico è pari a 33.842 mentre quelle europeo arriva solo a 26.604, ma soprattutto sono quei 4 giorni e mezzo – tanto occorre a Londra per avviare un’attività imprenditoriale contro i 10,2 dell’Europa – a fare la differenza.Dati attraenti, che giocherebbero a favore della Brexit, nonostante anche a Londra faccia di nuovo capolino la recessione. Ma questi dati non dicono che l’incarnato solitamente roseo di Cameron si sia bruscamente volto al grigio allorché il suo consigliere personale Matt Persson (fondatore del
think thankOpen Europe) gli ha fatto trovare sulla sua scrivania al numero 10 di Downing Street il salatissimo conto che la Brexit finirebbe per comportare. Proviamo a farli anche noi, questi conti, cominciando a non raccontarci fiabe: la Brexit ebbe inizio nel 1984 al vertice europeo del 25-26 che si tenne a Fontainebleau. Protagonista fu Margaret Thatcher, furibonda per il fatto che rispetto a quanto il Regno Unito versava nelle casse comunitarie, i benefici per l’economia britannica – che all’epoca pativa una umiliante recessione – erano nettamente inferiori rispetto ai partner europei, soprattutto per quanto riguardava la politica agricola comune, la famigerata Pac. Al grido di «
I want my money back! » ( Voglio indietro i miei soldi) la Lady di Ferro negoziò e alla fine ottenne quel meccanismo di rimborso delle quote versate oltre a una riduzione significativa del prelievo Iva che andò sotto il nome di “UK Rebate”, eufemisticamente tradotto come “correzione britannica”. In altre parole, da quel 1984 i partner europei coprono la differenza tra ciò che Londra dovrebbe versare e ciò che effettivamente versa, ovvero un importo pari al 66% della differenza tra il suo contributo al bilancio Ue e l’importo ottenuto dallo stesso bilancio, comportando, di riflesso, un ulteriore onere finanziario a carico degli altri Stati membri. L’Italia, per citare un esempio eloquente, negli ultimi sette anni ha versato al Regno Unito 6,7 miliardi di euro, grosso modo un miliardo all’anno. Tanto ci costa trattenere Londra nell’Unione. Ma non tutti concorrono nella stessa misura: Germania, Svezia, Olanda e Austria sono riuscite a ottenere uno sconto sullo sconto. E sono in molti oggi, banchieri in testa, a calcolare danni e benefici della Brexit.Ma osserviamo bene le cifre. Secondo l’Ocse la vittoria dei
Leave costerebbe mediamente a ogni famiglia del Regno Unito almeno 3.200 sterline annue, pari a circa 4.600 euro, visto che Londra versa alla Ue poche centinaia di sterline l’anno per ogni famiglia ottenendone in cambio oltre 3.000 di benefit: la Brexit in sostanza si mangerebbe il 3% del Pil britannico per i prossimi 5 anni, ma il calo raddoppierebbe al 6% entro il 2030. Ancor più disarmanti i calcoli della Confederation of British Industry, che attribuisce alla Brexit un costo enorme per l’economia e l’occupazione del Regno Unito: quasi un milione di posti di lavoro in meno entro il 2020, dai 100 ai 130 miliardi di sterline perduti dall’economia (il 5% del Pil), un aumento del tasso di disoccupazione del 2-3% e un calo della crescita tra il 3,8 e il 7,5%. Come spiegare agli inglesi, dicono i sostenitori del
Remain, che il Regno Unito vende alla Ue il 44 per cento delle sue esportazioni e che l’uscita sarebbe molto più che traumatica? Dice ancora il banchiere: «Nessuno sa bene cosa succederebbe, perché non ci sono precedenti. La cosa più grave sarebbe la perdita della “passaportazione” – chiedo scusa per l’orribile neologismo – di tutti i servizi finanziari. Nel senso che nel caso di un’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea una banca o un promotore con sede in Inghilterra sarebbe costretto a creare una base fuori dal Paese: una casa di fondi inglesi non potrebbe più vendere i propri prodotti all’Europa con le stesse modalità di prima e per tutti sarebbe più difficile esportare servizi così come per noi europei fare investimenti nel Regno Unito. Va da sé che la City perderebbe considerevolmente importanza».«Ma Cameron – dice l’economista capo di Citigroup Willem Buiter – ha perso inutilmente molto tempo: per mesi ha ignorato il problema, ora lancia l’allarme e parla di possibile guerra in Europa perché si è reso conto che l’esempio inglese potrebbe essere contagioso: l’Olanda, la Finlandia, forse la stessa Francia uscirebbero volentieri». Ma attenzione alla sterlina, sottolineano nei loro report gli analisti di Schroders: potrebbe scivolare molto in basso in caso di vittoria dei
Leave. Come finirà? Un diplomatico con sede a Bruxelles ridacchia: «Fra le segrete stanze gira una storiella che sembra assurda, ma del tutto assurda poi non lo è: il fatto che gli indipendentisti scozzesi, che a parole si proclamano contrari all’uscita dall’Europa, potrebbero votare in massa per il
Leave, in modo da far vincere la Brexit per poi chiedere autonomamente l’ingresso nella Ue come Stato sovrano, mentre il Galles e l’Irlanda del Nord punterebbero subito alla secessione. Addio Union Jack, insomma…». Una manna per i
bookmaker britannici, che aggiornano vorticosamente le quotazioni. Spiando perfino giorno per giorno il modello di cravatta che indossa il leader indipendentista Nigel Farage. Tace, per ora, la regina. Ma si sa che Buckingham Palace sotto sotto è europeista. E qualcosa alla vigilia del voto la novantenne Elisabetta certamente finirà per dire.